Hannah è un film che somiglia un po’ al suo titolo, e cioè a un palindromo. Nel senso che può essere percorso avanti e indietro mantenendo sempre lo stesso senso o che, guardato come una materia amorfa, da qualsiasi parte lo si prenda, ha sempre un po’ la stessa fisionomia. Ma anche che non eleva mai alcun contenuto oltre la propria forma e resta un oggetto, un po’ curioso, fatto solo per essere guardato.
Che Pallaoro sia profondamente attratto (e interessato) dal come, più che dal cosa, è piuttosto evidente sin dal suo lavoro d’esordio, Medeas (2013), ed è confermato anche dalla scelta di girare in 35mm; così come dall’attentissima cura che mette nella composizione di ogni inquadratura. Ma anche l’uso che fa degli attori (qui Charlotte Rampling, cui il regista filma addosso, è praticamente in tutte le inquadrature) così come il décor, un utilizzo decisamente invasivo del sonoro e una fotografia dai toni cupi – oltre alla grana spessa della pellicola – testimoniano come Pallaoro voglia soprattutto creare un’esperienza il più possibile sensoriale. Un’immersione totale dentro una forma, un dispositivo, un immaginario filmico però che rischia di restare superficie e di dimenticarsi di tutto il resto.
Hannah è una donna anziana che vive a Bruxelles e il cui marito viene arrestato per un crimine orrendo e indicibile. La sua vita è scandita dalla routine (un corso di teatro, un lavoro part-time come colf, qualche ora alla settimana in piscina) ma è sempre più sola e nessuno – nemmeno il figlio – vuole sapere più nulla di lei. Abbandonata, depressa e senza nulla per cui vivere medita quindi farla finita.
Anche la storia, del resto, è asservita alle dinamiche della rappresentazione. Ogni spazio, ogni azione, ogni movimento non fanno altro cha assecondare un’idea estetica che per quanto rigorosa e del tutto coerente al disegno che il regista ha in mente, non va oltre la propria testarda voglia di autorialità e non si scrolla di dosso la patina di una ricerca della forma quasi autoreferenziale. E anche quando ci sono, le intuizioni di scrittura (la protagonista che osserva una balena spiaggiata agonizzante che evoca la sua condizione, il corso di recitazione come mezzo per far affiorare quelle emozioni che le restano imprigionate dentro) diventano metafore sin troppo esplicite, quasi retoriche.
Una serie di pastoie queste che fanno cadere in secondo piano anche la buona prova della Rampling e un tema – quello dell’indicibile e del rappresentabile sotteso al crimine di presunta pedofilia del marito di Hannah – che avrebbe meritato di essere tematizzato in maniera più convinta.
La routine a cui Hannah cerca disperatamente di aggrapparsi, tra lavoro, corsi di teatro e piscina, va in pezzi all’indomani dell’arresto del marito. Perché è stato incarcerato? Perché la donna si nasconde dai vicini? Perché suo figlio non vuole avere niente a che fare con lei e le impedisce di vedere il nipote? Gli indizi per rispondere a questi dilemmi sono lì, nascosti nei silenzi e disseminati tra le pieghe di un dolore inespresso, ma le risposte sono in realtà del tutto marginali.