Non è difficile comprendere le ragioni del fascino che il diciassettesimo secolo continua a esercitare ancora oggi. I promessi sposi insegnano: il Seicento è – almeno nell’immaginario collettivo – il periodo della guerra e degli intrighi, delle rivoluzioni e degli assolutismi, delle epidemie e del commercio, dell’espansionismo coloniale e delle riforme radicali. Una materia grezza sulla quale trapiantare vicende di immediata presa fabulatoria, vivace sfoggio di avventure picaresche e intrallazzi di corte (in fondo, all’inizio del Seicento vedono la luce sia il Don Chisciotte che l’Amleto). Poco importa che – lo evidenzia uno dei misconosciuti capolavori della letteratura del nuovo millennio, Il ciclo barocco di Neal Stephenson – il cosiddetto «secolo di ferro» sia stato anche il terreno di coltura di idee, pratiche, scoperte e atteggiamenti le cui conseguenze sono avvertibili ancora oggi: il metodico sviluppo del calcolo infinitesimale apre la strada all’indagine quantitativa dei fenomeni naturali, la ricerca filosofica veleggia tra ansiti di rinascita spirituale e abboccamenti al pensiero matematico (è l’epoca di Leibniz e Newton, tra gli altri), le rotte commerciali e il mercato degli schiavi diventano avanguardia del futuro capitalismo. Come mostra, più di tutti, proprio I tre moschettieri di Dumas padre, il Seicento è soprattutto uno sfondo ideale e uno spazio mitico, paradossalmente atemporale. La Francia delle guerre contadine, di Richelieu (qui interpretato da Eric Ruf), di Luigi XIII (Louis Garrel) e di sua moglie Anna (Vicky Krieps) diventa – riprendendo le parole di Giorgio Manganelli – un luogo ideale «gremito di dimenticanze, di anacronismi, di astuzie da prestigiatore, di villane ed eleganti manomissioni». Motivi, peraltro, che hanno decretato il sempiterno successo di un romanzo che si dipana con un ritmo e una scansione degli eventi che sembrano già quasi cinematografici. Lo stesso Manganelli paragona il lettore dei Moschettieri a uno spettatore.
Non stupisce, quindi, che proprio il cinema – sin dal periodo del muto (c’è anche una versione italiana diretta nel 1909 da Mario Caserini) – si sia fin da subito appropriato di questo ricco materiale letterario. Dalla spensieratezza di George Sydney e Richard Lester alla sciagurata bagatella steampunk di Paul W.S. Anderson, sono innumerevoli gli adattamenti realizzati a partire da una materia così conosciuta, con i suoi colpi di scena e le sue trame ribalde, la sua ironia e i suoi personaggi ormai parte del sentire comune: il prode D’Artagnan (François Civil) e la sua amata Constance (Lyna Khoudri), il nobile Athos (Vincent Cassel), il licenzioso Aramis (Romain Duris), lo sbruffone Porthos (Pio Marmaï) o la bellissima e perfida Milady de Winter (un’indimenticabile Eva Green), che briga per screditare la reputazione della regina e congiura contro il Duca di Buckingham (Jacob Fortune-Lloyd).
Un immaginario ormai radicato che ha spinto una joint-venture guidata da Chapter 2 e Pathé a investire oltre settanta milioni di euro (nel contesto del cinema europeo, una vera e propria superproduzione) per realizzare due film tratti dal classico di Dumas, girati consequenzialmente. Così, in attesa di vedere il secondo capitolo incentrato sulla misteriosa Milady, bisogna rilevare gli imprevisti meriti di questo I tre moschettieri – D’Artagnan.
Al di là delle inevitabili semplificazioni e dei piccoli aggiustamenti effettuati in ossequio alla mutata sensibilità culturale (che saranno maggiormente avvertibili nel seguito in cui verrà introdotto un personaggio ispirato al primo eroe nero della letteratura francese, Louis Anniaba), il film dell’insospettabile Martin Bourboulon di O mamma o papà recupera sia una passione tutta artigianale per la messa in scena, in cui ogni inquadratura ha una sua precisa funzione, sia un gusto marcato per il racconto popolare. Un cinema raffinato ma non sontuoso, in equilibrio tra foga avventurosa e umorismo guascone, indubbiamente godibile e forse immediatamente dimenticabile. Il risultato è un racconto che sembra rileggere Dumas alla luce di Dickens (D’Artagnan sembra quasi un aggiornamento del Pip di Grandi speranze), dove ancora una volta viene proposta quella configurazione mitica del Seicento di cui si parlava in principio, largamente intinta nelle acque del romanzesco e della fantasia escapistica. Senza dimenticare, poi, tutti gli ingredienti della narrativa romantica e di ampio consumo, dai duelli di cappa e spada alle storie d’amore impossibili.
Forse, per contrasto, tornerà alla memoria dei cinefili più irriducibili il ricordo della breve apparizione di D’Artagnan nel più grande film sul Seicento mai realizzato: La presa del potere da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini. Un D’Artagnan privato di ogni aura mitica e rappresentato quasi come un mesto esecutore agli ordini del Re Sole, figura inscritta nella Storia e non più nel Mito. Ovviamente, gli obiettivi di Bourboulon e dei suoi sceneggiatori Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière si posizionano all’estremo opposto. È infatti il Mito che si riappropria della Storia e la trasforma in uno strumento al suo servizio. Si tratta, indubbiamente, di una delle grandi tendenze di un cinema «industriale» sempre più ripiegato nella riproposizione di archetipi e motivi condivisi; e che qui, tuttavia, trova una sua misura non disprezzabile, tutta inscritta nel piacere effimero dell’avventura canagliesca e smaliziata, contemporaneamente massimalista e naïf, superficiale e non di rado trascinante.
D'Artagnan, giovane e vivace guascone, viene dato per morto dopo aver cercato di salvare una ragazza da un rapimento. Quando arriva a Parigi, cerca in tutti i modi di scovare gli aggressori ma non sa che la ricerca lo condurrà nel cuore di una vera guerra che mette in gioco il futuro della Francia. Alleandosi con Athos, Porthos e Aramis, tre Moschettieri del Re, D'Artagnan affronterà le macchinazioni del Cardinale Richielieu. Ma, innamorandosi di Costance, la confidente della Regina, si metterà in serio pericolo guadagnandosi l'inimicizia di colei che diventerà il suo peggior nemico: Milady.