E pensare che in Santa Maradona si andava a un colloquio di lavoro “sapendo di volerlo perdere”. Poi i tempi sono cambiati, la crisi ha imposto le suo priorità, anche a livello di immaginario. Il cinema italiano si è adeguato, occupandosi di un segmento rilevante della società, quello dei precari, in maniera non episodica, ma l’ha fatto quasi sempre con la lente del tragico o del grottesco, senza particolari sfumature o accenni di complessità.
È stato un dramma sociale (Giorni e nuvole di Soldini, L’intrepido di Gianni Amelio), una frattura capace di togliere futuro anche ai sentimenti (Generazione 1000 euro di Massimo Venier), umiliazione dolorosa nel ridursi a fare – da laureati – i lavori più assurdi (Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, Fuga dal call center di Federico Rizzo).
Stavolta l’argomento è solo un pretesto. Smetto quando voglio di Sidney Sibilia (Salerno, 1981), qui all’esordio nel lungometraggio, è una commedia leggera e generazionale, virata tutta al maschile (la fotografia di Vladan Radovic e le scenografie di Alessandro Vannuci privilegiano un cromatismo acceso in stile Instagram, che satura ogni pixel).
Il protagonista è Pietro Zinni (Edoardo Leo), fa il ricercatore universitario, è un genio della neurobiologia, ma quando arrivano i tagli ai finanziamenti viene licenziato. Decide allora di mettere insieme una banda criminale e darsi allo spaccio di smart drugs. Creare una molecola nuova, non ancora censita dal Ministero della Salute come sostanza illegale, sarà un gioco da ragazzi.
Recluta i migliori tra i suoi ex colleghi: dal matematico che vive con dei sinti circensi (Libero de Rienzo) al chimico che fa il lavapiatti nel ristorante cinese (Alberto Petrelli), dai due benzinai, uno latinista e l’altro specializzato in diritto canonico (Lorenzo Lavia e Valerio Aprea), all’esperto di cartografia classica (Paolo Calabresi) fino all’antropologo carrozziere (Pietro Sermonti). Il successo è immediato, arrivano soldi, potere, belle donne. Fino a quando non si materializza il “Murena” (Neri Marcoré), il boss che governa il traffico di droga in città.
Anche tenendo conto delle dichiarazioni di Sibilia («i miei sforzi sono stati tutti finalizzati a divertire, a far trascorrere al pubblico novanta minuti di evasione, il resto è secondario») le peripezie di questa rinnovata “banda degli onesti” o di “soliti ignoti” ai tempi di Ocean’s Eleven e Breaking Bad – non superano quasi mai lo spessore della sit-com o dello sketch prolungato (nel cast figurano non a caso molti attori della serie tv cult Boris, poi diventata a sua volta un film).
Tra vuoti narrativi e lampi di divertimento (la rapina in farmacia con pistole a pallettoni e baionette napoleoniche), citazioni esplicite (la scena delle ripetizioni in casa di Pietro ripresa da Acqua e sapone di Carlo Verdone) e sprazzi di buona scrittura (la sequenza di flashback sul finale) Smetto quando voglio si rivela il tentativo acerbo, ancorché volenteroso, di un cinema parodistico che fa del puro intrattenimento il suo (unico) punto di forza.
Pietro Zinni ha trentasette anni, fa il ricercatore ed è un genio. Ma questo non è sufficiente. Arrivano i tagli all'università e viene licenziato. Cosa può fare per sopravvivere un nerd che nella vita ha sempre e solo studiato? L'idea è drammaticamente semplice: mettere insieme una banda criminale come non se ne sono mai viste. Recluta i migliori tra i suoi ex colleghi, che nonostante le competenze vivono ormai tutti ai margini della società, facendo chi il benzinaio, chi il lavapiatti, chi il giocatore di poker. Macroeconomia, Neurobiologia, Antropologia, Lettere Classiche e Archeologia si riveleranno perfette per scalare la piramide malavitosa. Il successo è immediato e deflagrante, arrivano finalmente i soldi, il potere, le donne e il successo. Il problema sarà gestirli!