Che “sotto il sole” ci sia ben poco di nuovo, lo dimostra il fatto che, nel tentativo di descrivere in concetti lapidari Il buco, vengano in mente due locuzioni latine tra le più note e trite: “Homo homini lupus” (letteralmente, l’uomo è lupo per l’uomo), da Plauto a Hobbes sintesi di come l’essere umano sia fondamentalmente egoista, mosso quasi esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza e dall’interesse per se stesso; e “Mors tua vita mea”, altrettanto affascinante modo di dire, attribuito ai gladiatori ma più probabilmente di derivazione medievale, che, di fondo, sottintende lo stesso identico concetto: l’uomo è per natura prevaricatore, per istinto capace, nel cercare di salvare sé e il proprio interesse, di macchiarsi della morte – reale o figurata – altrui. Tutto qua, insomma, ciò attorno a cui ruota il nuovo film di Galder Gaztelu-Urritia.
In un distopico ambiente a metà tra un carcere (ma in cui ci si può chiudere anche spontaneamente) e un moderno Inferno a gironi, i protagonisti de Il buco, divisi a coppie su oltre 200 piani o livelli, hanno come solo obiettivo la sopravvivenza, quella più basilare, data dal cibo. Lo scopo è, pertanto, mangiare. Mangiare quanto si trova su un tavolo che, giorno dopo giorno, scende in successione, dall’alto verso il basso, dal piano 1 al fondo incerto di questa enorme fossa. Mangiare le prelibate e curate pietanze offerte da un team di cuochi puntigliosi e prestigiosi, che via via, però, si trasformano in null’altro che avanzi. E peggio, da un certo livello in poi, in piatti vuoti.
Quel che il film tenta di denunciare, è allora, in primo luogo - è evidente ma anche poco efficace -, una catena alimentare scellerata, non così lontana dalla realtà del mondo moderno, tra Paesi che si abbuffano e scartano tonnellate di cibo e Paesi ridotti alla fame, tra razzie al supermercato e richieste di carità; un sistema in cui ognuno pensa solo per sé, si nutre oltre le proprie necessità, non lasciando niente a chi viene dopo, non pensando a chi sta sotto. È l’apoteosi del disgusto, della sgraziatezza, tra chi mangia con le mani e chi cammina sulle torte - raramente o forse mai accompagnata però da una scelta altrettanto forte dal punto di vista visivo/registico -. È un sistema che, a lungo andare, discendendo, esaurisce il cibo e fallisce, facendo fallire con sé anche una forma di civiltà democratica e equa, fino alla disumanità più orrorifica.
In un linguaggio stilistico piuttosto povero e banale, tra scene scure o filtrate di rosso e – troppo, davvero troppo – splatter gratuito, ne Il buco tutto diventa “ovvio” e “normale”: l’omicidio, lo stupro (almeno tentato), il cannibalismo. Una trovata, ancora una volta, tutt’altro che nuova, e che accosta, più o meno da vicino, il film a tanta cinematografia e letteratura distopica, su tutti, Snowpiercer di Bong Joon-ho, da una parte, e il condominio londinese di J. G. Ballard, dall’altra. La colpa di questa perdita di umanità e valori? Per Galder Gaztelu-Urritia, della natura dell’uomo - prevaricatore e lupo, come si diceva -, della necessità, della fame, o in alternativa dell’”Amministrazione”, il fantomatico comando dell’intero sistema simil-carcerario, grazie al quale si fa il verso a un mondo reale che accusa i poteri, i vertici, chi sta in alto, scaricando le pecche della propria coscienza su qualcosa di lontano e indistinguibile.
Ma una speranza, vuole dirci il regista spagnolo – sempre con scarsa originalità -, esiste, e sta nel fermare la ruota, risiede nella solidarietà. Se allora è un po’ strano e assurdo che non vi sia forma alcuna di altruismo in questa “fossa”, dove del resto chiunque ha provato sulla propria pelle sia i lussi dei piani alti che la fame lacerante dei piani bassi, a farsi portavoce della rivoluzione – nei fatti tutt’altro che pacifica – è, da metà film in avanti, Goreng (Iván Massagué), un moderno – per cliché – Don Chisciotte, un illuminato che ha deciso di affrontare “la prigionia” in compagnia di un libro, colui che spingerà la sua umanità persino oltre ai suoi propri ideali.
Un giorno Goreng si sveglia, con il futuro collega Trimagasi, al trentatreesimo piano di una prigione, attraversata da una piattaforma discendente che trasporta i resti dei pasti dei detenuti dei piani superiori. Trimagasi conosce le regole di questo luogo misterioso: due persone per piano e un numero sconosciuto di reclusi. Se sali di piano sopravvivi, ma se pensi troppo scenderai di nuovo. Se sei in fondo, dove il cibo arriva a malapena, non ti puoi fidare di nessun altro che del tuo istinto.