Un gruppo di donne di differente età è in attesa al bordo di una strada. A quel crocicchio arriva un camioncino che le carica, chi davanti – mostrando l’ombra di un privilegio – chi dietro ammassandosi in una consuetudine lavorativa che sembra unirle. Inizia così, con un gesto quotidiano e allo stesso tempo emblematico, Il frutto della tarda estate, opera prima di finzione della franco-tunisina Erige Sehiri, presentato alla «Quinzaine des realisateurs» dello scorso Festival di Cannes. Il film racconta, con pudicizia e sincerità, una giornata di fatica di un gruppo di lavoratori – o, meglio, lavoratrici – stagionali. Gli uomini, esclusi i pochi “caporali”, sono eccezioni: a raccogliere i fichi nel soleggiato frutteto sono principalmente donne, di età e sensibilità differenti, adatte alla fatica ma propense a confrontarsi, a scontrarsi. A seguire i rituali della raccolta e allo stesso tempo a riempire i loro gesti rituali di rivendicazioni e speranze, di desideri e speranze.
Il frutto della tarda estate è un piccolo saggio narrativo, che si sviluppa nell’arco di una singola giornata, per tracciare una mappa della femminilità contemporanea, cogliendo nelle differenze e nelle frizioni delle protagoniste un punto di vista peculiare e originale sull’essere donna – e di umile condizione – della Tunisia contemporanea. Sehiri segue le sue protagoniste, accarezza le velleità e i sogni delle più giovani e li confronta con l’esperienza forse un po’ cinica delle più anziane. Lascia che le sue protagoniste provochino e siano provocate, mette di fronte il desiderio di libertà all’illusione di un futuro più solido: c’è chi anela a un approccio più smaccatamente moderno e chi desidera per sé un futuro più sicuro e tradizionale, c’è chi ama per realizzarsi e chi non vuole amare per costruirsi un potenziale futuro indipendente. Lo sguardo di Sahiri osserva da vicino, immerge nel verde delle foglie e nel marrone dei tronchi una femminilità transgenerazionale, intrisa di un vitalismo che appare ignoto al maschile. Gli uomini sembrano dibattersi in una reiterata dimostrazione di forza, sfiorando da una parte la violenza e dall’altra il ridicolo. Ma il racconto di Sehiri si differenzia dalla caricatura femminista del post #MeToo, mostrandosi piuttosto interessato a una descrizione complessa e sfaccettata dell’evoluzione femminile di una moderna società araba e nordafricana. La tradizione si scontra e si incontra con le visioni delle giovani raccoglitrici, che non impongono un rifiuto ma esprimono esigenze con una naturalezza amplificata dalla recitazione degli attori non professionisti che animano il film con una fisicità mai posticcia, con una vitalità contagiosa, con un’estroversione mai forzata. Il frutto della tarda estate è l’espressione di un’autrice capace di focalizzare il cuore del suo discorso – il nocciolo della questione – senza mai scadere in un didascalismo di maniera, in un ideologismo forzato. Sehiri sceglie piuttosto la strada del confronto e dello scontro, della descrizione naturalistica e del vitalismo femminile, per descrivere un mondo che, dietro regole che sembrano immutabili, mostra i semi di un prossimo e inevitabile cambiamento. Negli sguardi, nei sorrisi, nei gesti, nelle provocazioni delle giovani donne al lavoro si sente – senza retorica e senza infingimenti – il rumore di un mondo nuovo.
Nel Nord-Ovest della Tunisia, arrivate per raccogliere fichi in un frutteto che sembra un altrove sospeso nel tempo, due generazioni di donne flirtano, litigano, si prendono in giro e discutono di maschi e d'amore sotto gli occhi dei colleghi uomini. In una giornata di fine estate il frutteto diventa teatro di emozioni, un luogo dove transitano i pensieri e le speranze di una società che si evolve e sogna un futuro luminoso.