Nonostante una carriera cinematografica piuttosto altalenante, Michel Gondry è un regista amatissimo. Affermatosi nel panorama internazionale con lo straordinario Eternal Sunshine of the Spotless Mind nel 2004, il regista francese non ha più bissato il successo del cult sceneggiato da Charlie Kaufman: nei film più commerciali non è infatti mai veramente riuscito a far emergere il proprio estro creativo, mentre i suoi progetti più personali sono quasi sempre rimasti un po’ soffocati dalla bulimia di idee portata su schermo. Però la sua è una creatività che quando riesce a toccare le corde giuste può raggiungere delle vette di meraviglia davvero uniche.
Tagliato il traguardo dei 60 anni, Gondry sembra voler tirare le somme del proprio percorso artistico: Il libro delle soluzioni è infatti un autoritratto ironico e sgangherato che racconta la storia di un regista incapace di concludere il proprio film perché travolto dalle troppe idee che vorrebbe girare. Fuggito dalle imposizioni di una produzione che esigeva un film più canonico, l’alter ego di Gondry si rifugia in una casa di famiglia in campagna dove, assieme a un gruppo di fedelissimi collaboratori, prova a realizzare la sua opera più libera e monumentale. Per farlo ricorre al libro che dà il titolo al film: un quaderno immacolato dove non esistono soluzioni ideali, ma solo opportunità per alimentare la propria vena artistica.
Quello di Gondry non è quindi mai stato un problema di idee, quanto piuttosto di confini. L’incapacità di porsi dei limiti, di mettere un punto e finalizzare un pensiero gli ha spesso fatto perdere il controllo della realtà e delle proprie opere. Con Il libro delle soluzioni sembra voler dichiarare di essere perfettamente consapevole di tutto questo e di non poterne fare a meno. Anzi, vuole assolutamente convincere tutti che in fondo sia giusto così. Esattamente come il protagonista che ignora completamente le esigenze e le indicazioni dei propri collaboratori, Gondry inonda lo spettatore di concetti, idee, trovate e costruisce un film dall’andamento anarchico, discontinuo e travolgente. D’altronde è lui il primo ad esaltarsi come un bambino di fronte alle invenzioni artigianali che esibisce senza freni, e questo (nel bene o nel male) non può certamente lasciare indifferenti.
Quel che però è certo è che in un momento storico in cui abbondano i film che riflettono sul cinema, sul suo linguaggio, sul suo ruolo nel nostro mondo e nell’immaginario collettivo, lo sguardo di Gondry è uno dei più unici e forse anche interessanti. Perché arrivato a 60 anni e presentando un’opera che tira le somme di una carriera, non si fa nemmeno sfiorare dalla malinconia e mantiene l’entusiasmo di un esordiente. Fare un bilancio guardando sempre avanti e mai indietro è, oggi, una scelta quasi radicale. In un periodo in cui viviamo un costante riciclo di idee stantie, un vulcano in piena come il cinema di Gondry può avere davvero tanto da dare; forse più oggi che 10 o 15 anni fa. Perché l’idea di non voler mettere un punto alla propria opera quando ci sono ancora troppe idee da mettere in scena è tra i pensieri più belli che un regista può dedicare all’arte che ama.
Per terminare il suo nuovo film, il regista Marc si rifugia con un manipolo di fedelissimi a casa di sua zia, in uno sperduto villaggio nelle Cevennes. Ma qui la sua creatività esplode in mille direzioni diverse, gettando la lavorazione nel caos. Allora Marc inizia a comporre un manuale che raccolga le soluzioni a tutti i problemi del mondo...