Ci sono film che parlano di fascismo, in una delle sue tante declinazioni storiche e geopolitiche, e altri che se ne fanno carico in maniera circostanziata, ma guardando all’orizzonte passato e soprattutto presente/futuro. Lo spagnolo Il maestro che promise il mare di Patricia Font rientra in questa seconda, intelligente categoria, poiché sceglie di profilare il franchismo ad ampio spettro su scala globale. Nell’affrontare un caso reale, legato alla vicenda del maestro di Terragona, Antoni Benaiges, attivo dal 1935 nella scuola di Bañuelos de Bureba, piccolo borgo della provincia di Burgos, Il maestro che promise il mare coniuga la tradizione del racconto di formazione, dove l’insegnante si conquista uno spazio pedagogico sano e aperto all’interno della sua classe, con la rievocazione storica dell’avvento della dittatura che naturalmente agisce, con il supporto clericale neppure occulto, sulle fondamenta della società, le nuove generazioni e la conoscenza diffusa sullo strategico fronte scolastico.
La guerra come misura di tutte le cose, la repressione del dissenso, il rogo al quale anche in questa circostanza bruciano le pubblicazioni dei bambini che il maestro ha incoraggiato, sulla falsariga del non tanto avveniristico Fahrenheit 451 di François Truffaut, diventano parte integrante di un ammonimento che non si esaurisce nella rievocazione dei fatti, a fatica ricostruiti dalla tenace e dolente pronipote del protagonista, al centro della fitta struttura narrativa a flashback. La lezione della dittatura trascorsa, ma evidentemente ancora dentro la coscienza nella Spagna contemporanea, e di ogni prospettiva consimile prossima ventura, rende il film di Font di estrema, fluida e educativa attualità.
I settantacinque anni che separano dunque l’inchiesta privata della ragazza protagonista da quella del maestro di cui non si è recuperato nemmeno lo scheletro in una fossa comune, rende molto bene nella sua limpidezza divulgativa e problematica l’idea di un’istanza di scavo a largo spettro. Scavare e recuperare le spoglie documentali e fisiche di una memoria letteralmente ridotta all’osso è la sfida odierna che il film rilancia come parametro critico, etico e culturale. Esempio esplicito di un cinema immediatamente comprensibile, pur nella sua ricerca a ritroso, Il maestro che promise il mare si offre in ogni passaggio improntato a una visione democratica e di spazio condiviso del sapere dentro “la realtà di tutti”, per dirla con Aldo Capitini che ben aveva costruito il suo nonviolento sulla scorta del fascismo in Italia, tragico modello di lungo corso anche del regime di Francisco Franco e del nazismo hitleriano.
Da questa premessa si evince l’esigenza di tradurre la parabola veritiera nella prospettiva del mare, come distesa liquida e sconfinata, quindi “correlativo oggettivo” nell’accezione di T. S. Eliot, sconosciuto ai più piccoli, in fertile omaggio al film d’esordio, sempre di Truffaut, I 400 colpi; e non in chiave cinefila, ma in quanto modello di inveterata Nouvelle Vague, allora mutuata dalla lezione umanistica del maestro e dedicatario André Bazin, che per l’appunto dall’orrore dei fascismi della prima metà del Novecento, quindi dalla Seconda guerra mondiale, aveva tratto linfa critica, teorica ed esemplare per un cinema progettuale e lungimirante. E se il franchismo è sopravvissuto al fascismo e al nazismo oltrepassando la linea della seconda metà del secolo scorso, vuol dire che anche alla riflessione audiovisiva non è dato ancora chiudere la partita.
I ricordi sepolti della Guerra Civile Spagnola vengono alla luce quando una donna cerca i resti del padre di suo nonno e scopre la storia di un giovane insegnante idealista di Tarragona.