Gabriele Salvatores

Il ritorno di Casanova

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A partire dal 1917, Arthur Schnitzler si dedicò alla parallela stesura della commedia Le sorelle ovvero Casanova a Spa (pubblicata nel 1919) e della novella Il ritorno di Casanova (pubblicata invece l’anno precedente). Se la prima mostra il celebre libertino nell’ardente vigore della giovinezza, dedito ai piaceri dorati della gozzoviglia e del godimento saturnino, la seconda ne esibisce spietatamente il deperimento fisico, il decadimento spirituale (convintamente ateo, sta redigendo un livoroso pamphlet contro la presunta irreligiosità di Voltaire) e l’infiacchimento morale. Invitato a trascorrere un breve soggiorno nella tenuta della campagna mantovana del suo vecchio conoscente Olivo (nel film interpretato da Alessandro Besentini, l’Ale del duo comico Ale e Franz) – dopo che in passato ne aveva carnalmente posseduto l’allora fidanzata e attuale moglie Amalia (Sara Bertelà)  – l’ormai senescente Giacomo Casanova (Fabrizio Bentivoglio) concupisce le grazie della bella nipote del padrone di casa, la studentessa di matematica Marcolina (Bianca Panconi), che tuttavia, insensibile al fascino mondano del grande seduttore, ne rifiuta recisamente la corte e preferisce giacere nottetempo con il giovane e spiantato tenente Lorenzi (Angelo Di Genio), il quale a sua volta s’intrattiene sovente con la moglie del suo padrone di casa, il marchese Celsi (Elio De Capitani). Gli alisei dell’ingegno e del caso permetteranno all’avventuriero di soddisfare il suo capriccio, a prezzo però della totale degradazione e del mesto ritorno nella natia Venezia dove troverà un’umiliante occupazione come spia al servizio del Consiglio dei Dieci.

Figura posta al varco tra il dogmatismo razionalista del secolo dei lumi e le profonde inquietudini del romanticismo (lettura del personaggio che darà anche Albert Serra nel suo Història de la meva mort [2013]), il Casanova di Schnitzler è un uomo solo, maschera grottesca di una personalità che non riesce mai a essere tragica, pericolosamente attratto dal pensiero della morte, ossessionato dalle ombre ammonitrici dell’invecchiamento e prigioniero di una spinta propulsiva che si ribalta sovente in una larvata tensione autodistruttiva. Tutte caratteristiche che lo accomunano al protagonista dell’ultimo film di Salvatores, l’anziano e affermato regista Leo Bernardi (Toni Servillo), prigioniero di una crisi creativa ed esistenziale che si dipana con intensità crescente proprio mentre – insieme al suo montatore di fiducia Gianni (Natalino Balasso) – sta per ultimare un adattamento del racconto del grande scrittore austriaco. Diviso tra le pressioni del produttore Alberto (Antonio Catania), che spinge perché il film sia concluso in tempo utile per essere presentato a Venezia, e le attenzioni di una stampa che purtuttavia lo ha relegato alla scomoda posizione di baluardo di un passato ormai superato e ha eletto a nuovo beniamino il giovane Lorenzo Marino (Marco Bonadei), il regista trova un antidoto a una vita sempre più imprigionata nei tentacoli della monotonia e dell’artificiosità illusoria (come ironicamente sottolineano le apparecchiature ipertecnologiche della sua casa) attraverso l’incontro con la contadina Silvia (Sara Serraiocco), donna fiera della sua indipendenza, creatura quasi chimerica e, allo stesso tempo, concreta incarnazione dei fasti di una giovanile e ormai perduta baldanza (esattamente come Marcolina per Casanova).

Evidente, quindi, che Il ritorno di Casanova di Salvatores poggi le sue fondamenta sull’elementare e sempiterno conflitto tra Arte e Vita, con le loro reciproche risonanze, gli ovvi rispecchiamenti e le necessarie distanze. Un rapporto ovviamente non riconciliato, dove l’ago della bilancia sembra sempre pendere in direzione dell’adesione fideistica alla prima dato che, con la vaga promessa di   una sfida agli incagli del tempo, essa diventa illusorio strumento di fuga dalla mostruosità delle convenzioni sociali, rompendo la barriera tra le intuizioni e le emozioni del soggetto e le regole del mondo. Inevitabile, quindi, che una vita come quella di Leo Bernardi – interamente consacrata alla bandiera dell’Arte, tanto da aver messo in secondo piano la possibilità di costruire una famiglia (come Salvatores, Bernardi non ha figli) – finisca per decantare fino a diventare una gigantesca mascherata che impone una perenne recita, una continua performance.

Come si vede, niente che non sia stato raccontato innumerevoli volte in passato. La qual cosa non costituisce di per sé un problema. Purtroppo, però, in quello che dovrebbe essere il suo film più libero e personale, Salvatores sembra anzitutto troppo preoccupato di farsi scudo dietro una specie di impetum imitationis che gli impone di convocare in rassegna – sterilizzandoli – tutta una serie di modelli: dall’ovvio Fellini (, Il Casanova, la spiaggia di La dolce vita, la babele dello spettacolo di Ginger e Fred ecc.) a Kubrick (lo Schnitzler di Eyes Wide Shut, il Settecento di Barry Lyndon, perfino un riferimento sonoro ad Arancia meccanica) fino a Tati (la ribellione della tecnologia domotica rimanda inevitabilmente a Mio zio). Così, più che una lotta coi mulini a vento, l’itinerario di redenzione ed emancipazione del protagonista diventa nient’altro che un feuilleton lirico costruito su un tempo interiore che si sgretola sempre di più, mentre il mondo sembra essere un prodotto contraffatto dall’immaginazione di chi lo dovrebbe rappresentare (come testimoniano anche certe scelte musicali, con Piano Man di Billy Joel suonata a una festa di paese). Perché la realtà in cui si muove Bernardi è una superficie anacronistica (o utopica?) dove il cinema non ha ancora preso coscienza della sua sempre maggiore irrilevanza mediatica e culturale (c’è persino una torma di giovani giornalisti in assetto da battaglia che si apposta nella hall dell’hotel dove il vecchio regista cerca di regalarsi qualche ora di ritiro spirituale) e gli urti dell’esistenza rientrano tutti in un polveroso scontro di opposti e archetipi (non solo – come detto – arte e vita, ma anche presente e passato o natura e cultura) che riverberano nell’opposizione tra il bianconero con cui la fotografia di Italo Petriccione riprende il perenne grigiore degli eventi della “vita” e il colore delle sequenze del “film nel film”.

Chiuso in questa bolla fuori dal presente, il risveglio di Bernardi dal torpore di un’inquietudine senza reale forma risulta esile come un barbaglio, tanto più che – al di là dell’ovvia funzione contrappuntistica – la scelta del soggetto del “film-da-fare” appare totalmente fuori contesto (perché affidarsi a una vicenda pre-esistente così lineare e già in partenza perfettamente modellata, senza peraltro apportarvi nessun cambiamento significativo?). Certo, Salvatores scherza sulle mode culturali (i blogger arruffoni e pettegoli), si toglie qualche sassolino contro le incomprensioni della critica, costruisce una sorta di autobiografia in terza persona sospesa tra rimpianto e desiderio (con un finale, ambientato al Lido, dove a fronteggiarsi per il Leone d’Oro sono due film italiani) ma rimane forse ostaggio di schemi intellettuali oramai superati (o, quantomeno, troppo noti), si rifugia comodamente nell’illusione onirica e non cerca un vero confronto con il mondo di cui è parte e con le immagini che lo rappresentano (come fa, lo si ami o lo si odi, attragga o respinga, lo Chazelle di Babylon). Pervenendo così a un risultato che sconta il peccato supremo dell’anonimato, dove la continua apertura di credito al glorioso passato del cinema e dei suoi grandi autori è incapace di fare breccia tra le smagliature di una realtà infinitamente più complessa.


 

Il ritorno di Casanova
Italia, 2022, 90'
Regia:
Gabriele Salvatores
Sceneggiatura:
Gabriele Salvatores, Umberto Contarello, Sara Mosetti
Fotografia:
Italo Petriccione
Montaggio:
Julien Panzarasa
Cast:
Toni Servillo, Fabrizio Bentivoglio, Sara Serraiocco, Natalino Balasso, Ale, Franz, Bianca Panconi, Antonio Catania, Sara Bertelà, Marco Bonadei, Elio De Capitani
Produzione:
Indiana Production, Babe Film, Effetti Digitali Italiani (EDI), Rai CInema
Distribuzione:
01 Distribution

Un affermato regista italiano, restio ad accettare lo scorrere del tempo, decide di raccontare il Casanova nel suo ultimo film. Durante le riprese si accorgerà di essere molto simile al personaggio che mette in scena, anche più di quanto potesse immaginare.

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