È come guardi che fa la differenza.
Te ne accorgi quando a guardare è uno come Nicolas Philibert, che se ne sta lì, in mezzo alla realtà, aspettando che si manifesti, semplicemente. Detto così, forse, suona un po' astratto e teorico, ma se lo guardi (appunto) capisci subito dove sta la differenza. Non tanto tra la fiction e il doc, la “manipolazione” e la “registrazione”, quanto tra l'attitudine di chi mette in scena un'idea, un'interpretazione del reale, e chi invece si mette al suo servizio, quasi chiedendo scusa per il fastidio di quella camera accesa, dopo un lungo rapporto di amicizia e complicità (un anno insieme, ad esempio, giorno dopo giorno, per abituarsi alla convivenza), da cui si sviluppa la fiducia reciproca e l'intimità necessaria a vedere/mostrare la verità di quella cosa. E se conoscete Philibert, sapete che non stiamo parlando di metafore ardite, di simbolismi, di messaggi ben camuffati in modalita “cinema del reale”, ma della pura superficie e la sua profondità, volti, gesti e parole, con tutta la loro ambiguità, la bellezza, l'impaccio, la grazia, il dolore, l'allegra curiosità.
Una scuola per infermieri. L'Institut de Formation en Soins Infirmiers, dove tanti giovani imparano un'arte (non solo un mestiere) particolarmente difficile, quella della cura, che comporta conoscenze tecniche ed empatia, coraggio e spirito di sacrificio. Si comincia dalle cose semplici, come lavarsi le mani nel modo corretto, e si prosegue imparando come si fa un'iniezione, un prelievo o un massaggio cardiaco, come si inserisce o si toglie un catetere. Mani, sguardi, gesti incerti, sorrisi nervosi, la paura di sbagliare, il piacere di scoprirsi capaci (ricordate lo sguardo beato, pieno di commovente meraviglia, del bambino che scopriva di saper scrivere in Essere e avere?). Poi, nella seconda parte, arriva il momento di cimentarsi con un paziente vero, in una corsia di ospedale, di mettersi alla prova con corpi malati ed esseri umani che soffrono e hanno paura, oppure non ne hanno per niente e ti guardano quasi con ironia, mentre cerchi di trovare la vena giusta o togliere un gesso senza fare danni. Infine, c'è il ritorno a scuola, il momento della verifica e della consapevolezza, i primi incontri con la morte, la fatica dei rapporti umani, le lacrime di rabbia o di paura. Ed è qui che spiccano le differenze, un problema che in realtà è una ricchezza, l'imbarazzo della ragazza islamica quando si parla di sesso, l'orgoglio della giovane donna di origine araba che si improvvisa interprete (mediatore umano) in un ospedale di periferia, le incertezze di un ragazzo sensibile o l'orgoglio di una ragazza molto sicura di sé.
Sì, perché se questo cinema è (apparentemente) semplice, se il suo scopo principale è quello di scomparire dentro la realtà per illuminarla dall'interno, e farcela vedere meglio, l'idea di fondo è tutt'altro che evidente o banale. Vedi la struttura tripartita, segnata da frasi tratte da una raccolta di poesie di Yves Bonnefoy, Du mouvement et de l’immobilité de Douve. Il tema della raccolta? La morte. La presa di coscienza. La poesia non come fuga in un assoluto consolatorio, ma come immersione nel reale, che è anche e soprattutto morte e trasformazione. Per Bonnefoy si tratta di guardare, e guardare ancora, e tradurre quella specie di autopsia della realtà in parole che però sono cose, per approdare a un “giorno che attraversa la sera, che vince la notte quotidiana” (un “varco nella muraglia dei morti”?). Una consapevolezza che attraversa in modo sottile, laterale, ma anche limpido, trasparente, il film di Philibert, che parte dal Que saisir sinon qui s’échappe? (Cosa cogliere se non ciò che sfugge?) attraversa il Que voir sinon qui s’obscurcit? (Cosa vedere se non ciò che è oscuro), per approdare al Que désirer sinon qui meurt, sinon qui parle et se déchire? (Cosa desiderare se non ciò che muore, se non ciò che parla e si lacera?).
Quando ci si ferma alla superficie delle cose, è facile farsi incantare o sviare dalle mille differenze culturali, caratteriali, linguistiche, fisiche, esistenziali. Ma un po' più sotto (non così tanto, basta una ferita a ricordarcelo, un mancamento, un dubbio del tipo “ci sarò ancora domani?”) c'è la sostanza dell'umano. Ed ecco allora quell'apertura del film – appena dopo il lavaggio delle mani – così “politica” e “filosofica" senza bisogno di fare comizi o lezioni sul senso della vita (d'altra parte uno dei film più politici degli ultimi anni è Ex Libris di Wiseman, a proposito di cineasti che credono nella forza della realtà). La regola fondamentale da ricordare, per chi vuole diventare un infermiere: ogni essere umano è uguale all'altro, “a prescindere da origini, usanze, situazione sociale e familiare, credenze religiose, handicap, stato di salute, sesso, reputazione, situazione della previdenza sociale”. La dignità dell'essere umano sempre e comunque. Nella vita e nella morte. Nella cura.
Un gruppo di giovani impara il mestiere dell'infermiere, dalla scuola alle corsie dell'ospedale. Le tecniche, ma anche l'empatia, il coraggio che ci vuole a confrontarsi con il dolore, la malattia, la morte.