Tre nomi, tre bambini, tre epoche. Zelinda, Assunta e Icaro. Il 1918, il 1943, il 1978. Tempi diversi di guerra che assaltano il quotidiano di un’infanzia innocente; un’infanzia che si muove sempre in controtendenza rispetto a un tempo più grande, quello della Storia. Perché nella vita dei piccoli protagonisti, e delle famiglie che gravitano loro intorno, sono i grandi avvenimenti del mondo – un mondo lontano e inconoscibile seppure invasivo – che si fanno sentire e che influenzano il meccanismo sempre uguale del non luogo in cui si fanno spazio.
“Invelle”, in nessun dove, nowhere, spazio ipotetico in cui il bisogno individuale si fonde e si cancella in quello collettivo, in cui i sommovimenti del mondo trovano una concretizzazione emotiva e allo stesso tempo asettica. A “invelle” non c’è salvezza, solo una ripetizione continua di uno stato di ingiustizia. Non è un caso che Simone Massi, animatore pluripremiato al suo primo lungometraggio, scelga la sua personale terra “spromessa” – una campagna marchigiana senza tempo e senza fiato – per raccontare l’insuccesso collettivo (la rimozione coatta) di un popolo che è fatto di dimenticanza e rimozione.
Invelle mastica la propria storia sociale e la risputa: rivendica consapevolezza analizzando una sconfitta che è la sconfitta di tutti. Zelinda affronta i cascami della Grande Guerra con una madre morta di fatica sui campi e un padre che torna trasfigurato dal fronte. Lei vorrebbe studiare, il mondo che la abbraccia con distacco non glielo consente. Segnata – in un film che fa del monocromatismo una bandiera stilistica – da un fazzoletto rosso che chiama resistenza personale, che rimanda alla Resistenza, quella vera, evocata a più riprese nella storia di Assunta – che a Zelinda si sostituisce al centro del racconto, figlie che diventano madri, bambine costrette a una maturità da donne più imposta che desiderata – ragazzina del 1943 che vede gli aneliti di libertà farsi lotta e poi delusione, percepita dolorosamente negli occhi di quegli adulti costretti a subire per l’ennesima volta l’inganno di un’illusione di libertà, il tradimento di una promessa.
A Icaro sarà concessa la porta di una modernità coatta: a lui, che porta in sé l’onomastica di un desiderio di volare destinato al fallimento, si apriranno le porte dello studio – tanto desiderato e sempre frustrato nei sogni delle sue antenate – e delle comodità. Un appartamento vero, il termosifone, l’agognata vita di città. Il prezzo da pagare, nella lucidità commovente del passaggio generazionale – di una commozione che Massi rappresenta sempre a ciglio umido –, è la perdita non solo di un’identità collettiva, ma di un mondo costretto all’estinzione, segnato dal lutto nazionale del rapimento Moro e della strage di via Fani. Ai movimenti interiori corrispondono, feroci e contrari, quelli di un Paese sempre incapace di salvarsi, di redimersi, di guardare davvero verso il futuro.
Un futuro che non sa far altro che cancellare le proprie radici: anche le inflessioni dialettali, nel tempo che passa e nel mondo che vuol rinnovarsi, sono destinate a essere represse, errori da segnare in classe con la matita blu. Invelle riesce allo stesso tempo a essere un’ode lirica che osserva un passato ormai scomparso e a imporsi come una denuncia politica sulle colpe della collettività, responsabile di quella perdita immane. Massi segna questa sconfitta di tutti incidendola sulle immagini del suo film, ostentatamente fatte a mano, che si impongono come testimoni concretissimi di un diritto all’esistenza e al ricordo. Segni dell’uomo, se mai ce ne fossero rimasti ancora.
Certo: Invelle è un film orgogliosamente politico e a tratti potrebbe pagare qualche eccesso ideologico, ma il suo coraggio nel fuggire ogni forma di languore pietistico per privilegiare una sorta di lirismo cristallino – naturale fino a fondersi nella rappresentazione di uomini, terra, animali – impone ammirazione e rispetto.
L’animazione di Massi è indescrivibile, quasi fantasmagorica: la macchina da presa si fa veicolo ideale per mescolare e ibridare un mondo talmente lontano e indescrivibile da reinventarsi e ricostruirsi nella memoria. I disegni si mescolano, si fondono, si trasformano. Il ricordo, il passato, l’ipotesi lontana di un segno di speranza, diventano vessillo, ideale, sogno da combattimento. Invelle di Simone Massi è in fondo una variabile immaginifica di un cinema militante che, come la società contadina che racconta, forse non esiste più. Ma di cui avremmo ancora maledettamente bisogno.
Nel 1918 Zelinda è una bambina contadina con la madre in cielo e il padre in guerra. Le tocca smettere l’infanzia e indossare la casa, i fratelli, la stalla e le bestie. Nel 1943 Assunta è una bambina contadina che sta in equilibrio su una gamba, con la testa guarda il cielo e tiene il piede in guerra (un’altra!). Nel 1978 Icaro è un bambino contadino che gira in tondo attorno al niente. È stato sognato tanti anni prima e deve fare e farà quello che non è stato possibile per sua madre e sua nonna. E per chi è venuto prima di loro.