When a white man tears down a prison, he’s trying to liberate himself.
When I tear down a prison, I’m assumed to be turning into another savage.
Because you don’t understand that you, for me, are my prison.
You are my warden.
I’m battling you.
James Baldwin
Quali immagini possono raccontare e rendere giustizia a un rivoluzionario? Quali sono i corpi e le parole, le strutture, quale sguardo posato su di loro può restituire la necessità dell’azione politica, la rabbia, la persistente insofferenza a un intero modo di vivere, a un sistema di pensiero immanente? A sei anni dal primo #oscarssowhite, attraverso un’era Trump caratterizzata da nuove rappresentazioni black, ma anche da una recrudescenza di razzismo sistemico, la risposta dell’industria hollywoodiana appare perlopiù fedele ai suoi codici di rappresentazione: nuovi soggetti e oggetti politici prendono la scena, ma gran parte di questi confluiscono all’interno di quel grande intrattenimento organizzato che salvaguarda i suoi meccanismi assorbendo il corpo estraneo e legittimandolo attraverso logiche e valori del proprio sistema di riferimento, affinché quello stesso sistema non ne venga messo in discussione.
Nulla di nuovo certo, specie per noi europei che il dispositivo eversivo dell’avanguardia modernista lo abbiamo visto crescere e morire in casa, con il suo tentativo di dare corpo alla lotta all’egemonia borghese attraverso la deflagrazione sperimentale e la riscrittura formale. Ma oggi – in un tempo che vede incrinarsi il rapporto speculare tra immaginario e società, come uno specchio in frantumi la cui corrispondenza biunivoca è saltata a causa dell’infiltrazione di altri fattori mediali, altre immagini e messaggi, plenitudine di interferenze social e forze centripete che tendono alla semplificazione costante, all’appiattamento del pensiero critico, alla fuga dalla complessità – oggi, dicevamo, l’immagine industriale, che è istanza politica e sa farsi certamente voce arrabbiata, può dirsi ancora forza dirimente?
Sembrerebbe un prenderla larga, quando il punto del discorso è uno dei film più attesi di questi ultimi mesi, Judas and the Black Messiah, ma il rapporto tra lotta e sistema, identità ed egemonia, è proprio il cuore dell’azione politica intersezionale di Fred Hampton, martire delle Pantere nere per cui la lotta contro il razzismo si interseca necessariamente con la rivoluzione socialista.
Morto ammazzato dalla polizia a 21 anni, Hampton è stato tra i leader chiave del movimento e simbolo di come nell’attivismo politico del Black Panther Party la discriminazione razziale fosse un aspetto fenomenologico della lotta di classe, prospettiva marxista-leninista sicuramente figlia dei tempi ma anche lucida e apertamente schierata contro l’intessitura capitalistica della società americana. Alla luce di ciò appare in qualche modo paradossale che un film incentrato su Hampton e il suo messaggio rivoluzionario risulti così conforme e fedele ai codici estetico-espressivi del sistema hollywoodiano, espressione di una società schizofrenica che è riuscita negli ultimi anni a favorire la rappresentazione della lotta disinnescandone le effettive implicazioni sociali. Ma ci sono almeno due motivi per cui questa contraddizione irrisolta tra principio politico e immagine industriale non è un demerito del film di Shaka King.
Il primo riguarda l’importanza di scendere dalla torre d’avorio intellettuale per occupare l’orizzonte del narrabile, del fruibile; la sperimentazione, si sa, è cosa per pochi, ma il potere (lo dice più volte Hampton stesso) è nella gente, nei numeri, e se anche si tratta di abbracciare il compromesso industriale – perché Judas and the Black Messiah anzitutto questo è, un film socialista alla corte del re cremisi del capitale – ben venga l’infiltrazione in territorio nemico se serve a evitare che opere conservatrici e sospettosamente semplificanti come Il processo ai Chicago 7 restino le sole a trasporre la contestazione sessantottina in forma di spettacolo popolare. Il secondo motivo è invece di carattere generale, e riguarda il fatto che il film di King, con tutta la sua incoerenza irrisolta, è un esempio di cosa significhi professare il socialismo in terra americana. Si pensi a Bernie Sanders, alla necessità impellente dell’establishment democratico di contenere il carattere radicale della sua azione politica dentro il brand del personaggio, ben lontano dalla corsa presidenziale, disinnescato di autentico potere decisionale.
Nell’anno cinematografico di Mank, altro film che in forme diverse perora una causa socialista mantenendo l’impalcatura capitalistica, e che di rimpianti e compromessi parla in modo molto lucido e poco compreso, Judas and the Black Messiah è probabilmente un testo imperfetto, con una regia dal fiato corto e una scrittura che non riesce a rendere merito allo spessore psicologico dei due protagonisti (raccontati attraverso una metafora cristologica che troppo spesso scivola via, senza colpo ferire, senza accendersi mai). Tuttavia è innegabile che ritrarre oggi e in queste modalità la figura di Hampton è un atto di volontà che innesca cortocircuiti non scontati, di pensiero e questione morale, coerenza e identità di lotta, particolarmente preziosi in un momento in cui l’attivismo si cristallizza sempre più in forme social-digitali che perorano un’interpretazione opposta di intersezionalità, giustamente attenta alle specifiche individuali ma troppo spesso volta alla scissione, all’infinita individuazione del singolo. Come se la frammentazione delle culture e degli intenti operata dall’era postmoderna ci avesse donato maggior libertà individuale ma anche allentato la nostra capacità, per l’appunto intersezionale, di rendere complessa e a maglie larghe la rete della lotta politica.
Chicago, fine anni Sessanta. Il minorenne Bill O'Neal, arrestato dopo un tentativo di truffa, accetta di fare l'informatore per l'FBI. Infiltrato nel Black Panther Party, O'Neal scala le gerarchie del partito e si avvicina al leader Fred Hampton, prima arrestato e poi liberato in attesa dell'appello. Militante di giorno e traditore la notte, Bill aderisce poco alla volta alla visione politica di Hampton, ma nonostante cià contribuirà in maniera decisiva alla violenta uccisione dell'uomo, avvenuta per mano dell'FBI nel dicembre 1969.