In francese è Passion Simple, titolo molto più eloquente della semplicistica traduzione italiana: perché “passion” non significa soltanto “passione”, ma anche “amore, o ancora “mania”; così come “simple” non è solo “semplice”, ma ha valore, come in questo caso, di “mero”, “puro”. E in effetti la narrazione del film di Danielle Arbid, talmente elementare da apparire scarna, vuota, a tratti futile, è in realtà frutto di un’astrazione consapevole atta a mantiene solamente l’essenziale, che è veicolo perfetto per lo sviluppo - quasi esclusivamente visivo - di un tema tanto universale e univoco quanto soggettivo e pluralistico come la passione amorosa.
È esattamente passione, e insieme amore e mania, il motore e movente dell’intero film, letterale propulsore del personaggio di Hélène, rappresentata come vittima senza riserve di questo sentire, dipinta come individuo passivo il cui subire è continuamente rimarcato dalle parole pronunciate nei (pochi) dialoghi con Alexandre, l’amante russo del titolo italiano, e con l’amica, nonché reso evidente dalle dinamiche che regolano le lunghe e molteplici scene erotiche del film. La sopraffazione di Hélène ci conduce fino all’ultimissima sequenza, divenendo sempre più prepotente, ossessiva e insostenibile fino a separare il personaggio dalla realtà, sottraendola dal suo ruolo di madre e dal suo lavoro di docente.
Questo sganciamento dalla vita reale, completamente e perfettamente restituito alla visione nell’insistito ricorso al teleobiettivo - che dissocia concretamente i primi piani dall’ambiente -, nelle lunghe dissolvenze incrociate tra scene successive e nella visione indiretta della (e da parte della) protagonista - tramite i vetri delle finestre, attraverso gli specchi o nello schermo di un computer - è contrappuntata dalla cruda fisicalità dell’atto sessuale, dalla carnalità in cui si coniuga la passione nella relazione con l’amante, risaltata dall’indugio voyeuristico della macchina da presa sui particolari dei corpi nudi, sui dettagli dei movimenti, sulla descrizione minuziosa dell’evolvere di ciascuno degli incontri dei due amanti.
Per due volte, all’inizio del film e appena prima della sequenza finale - che culmina con il celeberrimo brano Only You di Yazoo, coro emblematico della storia intera - Hélène esprime a parole la sconnessione dal reale e insieme il magnetismo irresistibile della passione che prova: è la medesima scena, ma da due prospettive differenti. All’inizio, la protagonista guarda dritta in camera, cerca il nostro sguardo di spettatori, invitandoci a entrare in quella bolla di intimità e privatezza come a voler cercare comprensione, per dare prova dell’universalità del sentimento di cui si dichiara vittima.
La seconda prospettiva è esterna e ci mostra il vero interlocutore di Hélène. È questa la scena da cui prende le mosse il graduale reinserimento della donna nella vita normale, quotidiana, il suo tornare a calarsi nella propria realtà attraverso una ritrovata - sebbene inflitta - indipendenza dal (e grazie al) travolgimento di quella “pura passione” vissuta con l’amante.
Hélène (Laetitia Dosch) è una docente universitaria e madre divorziata. Alexandre (Sergei Polunin) è un diplomatico russo sposato. I due si incontrano fuori Parigi per vivere la loro relazione impossibile. Nel corso di diversi mesi, il loro amore brucia e si consuma.