L'immagine di Dalton Trumbo che scrive a macchina nella vasca da bagno e lavora alle sue sceneggiature è un'immagine ambivalente: un'icona sospesa tra l'entusiasmo della propria integrità idealista, possibile solo tra mura domestiche, e il peso di una Storia pronta a smorzare la passione e la creatività. È ciò che più caratterizza questo biopic che si aggiunge alla casistica di film sul maccartismo (l'ultima volta fu con Good Night, and Good Luck di George Clooney, una decina d'anni fa). Ma a dispetto di titoli come Il prestanome o il trascurato Indiziato di reato, concentrati a restituire la tensione che soffocava gli Stati Uniti negli anni Cinquanta, Jay Roach opta per una descrizione psicologica di Trumbo, senza alcuna intenzione di farne un martire o una vittima sacrificale.
La crociata per la sopravvivenza artistica del futuro regista di E Johnny prese il fucile, culminata nella vittoria di due Oscar sotto pseudonimo per le sceneggiature di Vacanze romane e La più grande corrida e poi nel reintrego all'interno del sistema hollywoodiano a inizio anni '60, segue i passi di un intellettuale coerente coi propri principi, consapevole degli ostacoli da superare sia nella carriera sia nel nucleo familiare e nonostante tutto capace di non smarire l'aplomb da gentiluomo curato e affabile con tutti, con i suoi occhiali, i suoi baffi folti e le sue sigarette col bocchino.
L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo è certamente un prodotto al di sotto delle proprie ambizioni, anche se lodevole è il tentativo di concentrare l'attenzione dello spettatore sull'uomo anziché sull'artista. Nel dignitoso compitino cui si assiste, non esente da momenti quasi comici (come l'incontro con Otto Preminger) o carichi di speranza (la caparbia scelta di Kirk Douglas di volere Trumbo per la lavorazione di Spartacus), la prima parte dolente e crepuscolare ricostruisce gli anni della Caccia alle streghe e delle udienze dei cosidetti “Dieci di Hollywood” (sceneggiatori di Hollywood iscritti al Partito Comunista che si rifiutarono di rispondere alla Commissione per le attività antiamericane e per questo finirono nella famigerata lista nera). Il film mette in scena con precisione quel periodo: lo spettatore ritrova le personificazioni di Louis B. Mayer, Ian McLellan Hunter e Sam Wood, sente menzionare Robert Taylor o Gregory Peck, nei filmati d'archivio vede altre star dell'epoca come Reagan o i coniugi Bogart. Un approfondimento maggiore, invece, hanno le figure di John Wayne (con cui Trumbo si scontra duramente ) ed Edward G. Robinson, delatore suo malgrado.
Dato il rischio di una materia ancora scottante, della cui responsabilità una fetta d'America non riesce a farsi carico (il film è stato non a caso criticato in patria), molti nomi sono cambiati o inventati. La stessa personificazione in stile dark lady della guru del gossip Hedda Hopper, in cui Helen Mirren si produce in un altro numero d'istrionismo, è troppo carica di astio e antipatia verso i “rossi” per non dare l'impressione che molto della biografia di Trumbo, firmata da Bruce Alexander Cook, sia stata compressa a scapito della filologia storica.
E se Bryan Cranston s'impegna in una parte non facile, altre figure risultano meglio caratterizzate, dalla moglie Cleo di Diane Lane al produttore di B-movies Frank King di John Goodman (imponente e straordinario, specie quando minaccia un anticomunista che gli consiglia di licenziare Trumbo arrivando quasi a demolire il proprio stesso studio...).
La qualità delle interpretazioni e della ricostruzione, però, non dissipa l'impressione di un'occasione mancata. Come insegna l'ultimoTarantino, infatti, la condizione dei fatti storici e la loro attualità in grado di incidere sulla contemporaneità, può far capolino tra le pieghe di una ricostruzione storica. A L'ultima parola, invece, basta forse solamente mostrare nei titoli di coda autentici filmati storici con il vero Trumbo per rendere ancora viva la sua testimonianza e la sua tragica, dignitosa, straordinaria esistenza.
La vita di Dalton Trumbo, uno tra più celebri e pagati sceneggiatori di Hollywood verso la fine degli anni '40. Schierato con i sindacati e iscritto al Partitco Comunista, Trumbo vide la propria carriera crollare dopo aver rifiutato, insieme ad altri nove colleghi, di rispondere alle domande della Commissione per le Attività Antiamericane, nell'ambito delle indagini condotte dal governo americano contro l'attività dei comunisti negli Stati Uniti. Condannato a nove mesi di carcere, ostracizzato dal sistema hollywoodiano (che boicottò per anni il lavoro dei cosidetti «dieci di Hollywood»), Trumbo si rifece una carriera scrivendo sotto pseudonimo decine di film e arrivando a vincere anche due Oscar (ritirati da altre mani) per Vacanze romane e La più grande corrida. Accompagnato per tutta la vita dall'amore della moglie e delle figlie, Trumbo potè tornare a firmare i propri film solamente all'inizio degli anni '60, grazie a Kirk Douglas e Otto Preminger che lo vollero come sceneggiatore di due grandi produzioni come Spartacus e Exodus.