Un sogno, il risveglio, la presa di coscienza, l’interno di una casa vuota. Sono le prime immagini che anticipano la comparsa sullo schermo del titolo del film, racchiudendo in una sola sequenza tutti i codici visivo-tematici che ruotano attorno alla storia che sta per essere raccontata.
La donna alla finestra è questo e molto di più: un racconto profondamente postmoderno che non si preoccupa di attingere a piene mani da elementi di altri film ma al contrario, li modella, li porta al limite e li utilizza come base solida per costruirvi un thriller soverchiante.
La storia vede la psicologa Anna Fox costretta all’autoreclusione nella sua magione newyorkese a causa di una forte forma di agorafobia che si porta avanti da tempo. È separata, ha una figlia in affidamento al padre e passa le proprie giornate a guardare vecchi film, giocare a scacchi online e a spiare la vita dei Russell, una nuova famiglia appena trasferitasi nel palazzo di fronte.
Mentre i pretesti narrativi accarezzano (non poco velatamente) quelli de La finestra sul cortile (di cui si vede pure uno screenshot alla tv, prima che lo stesso schermo mostri anche frammenti di Io ti salverò, Vertigine e La fuga) e del più recente Disturbia, la caratterizzazione dei personaggi principali spicca in particolare per il modo in cui interloquisce indirettamente con due serie (entrambe prodotte da Jean Marc-Vallée) aventi le stesse atmosfere thriller del film: da una parte il personaggio di Amy Adams è come se prolungasse le stesse fragilità e tendenze all’autodistruzione della giornalista interpretata in Sharp Object; dall’altra vi sono i Russell, Julienne Moore e Gary Oldman, i quali restituiscono delle versioni schizofreniche e invecchiate della cinica Renata (Laura Dern) e del violento padre di famiglia Perry (Alexander Skarsgård) di Big Little Lies.
Vero fulcro di tutta la vicenda è la casa. Wright anche in questo caso sembra trarre ispirazione da due residenze che hanno avuto dei ruoli centrali nella storia del cinema recente: l’austero e gotico maniero della famiglia Sharpe di Crimson Peak (Del Toro) e il non-luogo che è la dimora coloniale in cui vivono i coniugi di Madre! (Aronofsky). Ne risulta un ambiente lugubre, una sorta di girone dantesco che assume i connotati di organismo vivente che coi suoi scricchiolii e tonfi restituisce un perenne senso di “digestione” al quale i personaggi non possono sottrarsi.
Un microcosmo in cui si alternano toni sgargianti a zone ombrose e al cui esterno la realtà assume colori assolutamente naturali, accentuando ancor di più la condizione mentale incrinata della protagonista. Come nel film di Aronofsky, è poi l’istinto protettivo dato dal senso materno della protagonista a fare da motore a tutta la storia e, inesorabilmente, a condurla alla pazzia.
La donna alla finestra è permeato da un forte senso di dualità: ambienti pieni e vuoti, colorazioni contrastanti, un costante dialogo sui diversi livelli di finzione (i rimandi hitchcockiani che “rimbalzano” dagli schermi dei dispositivi all’interno degli avvenimenti del film); tutto fa sì che lo spettatore si trovi come a bordo di un figurativo vascello, in balia di un vortice in cui si scontrano le correnti impetuose di realtà e illusione.
Anna Fox si sente al sicuro a guardare il mondo dalla finestra della sua casa, ma quando i Russell si trasferiscono nell'edificio di fronte assiste a qualcosa di inimmaginabile. Cos'è successo davvero?