Ye Lou

La donna del fiume - Suzhou River

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L’arduo compito che hanno dovuto affrontare i cineasti della cosiddetta «sesta generazione» del cinema cinese (tra i più conosciuti da noi: il capofila Jia Zhang-ke, Wang Xiaoshuai, He Jianjun e il maggior teorico Zhang Yuan) è stato quello di dover conciliare e superare una doppia tradizione: da un lato quella cinematografica della «quinta generazione» (quella, per intenderci, di Tian Zhuangzhuang, Zhang Yimou, Chen Kaige e del grandissimo Huang Jianxin) che finalmente si era alienata lo scotto ideologico del cinema maoista, pienamente statalizzato e ideologizzato; dall’altro, quella più complessa e contraddittoria che riguarda l’intera storia della Repubblica Popolare, con la rivoluzione culturale, la difficile alleanza con l’Unione Sovietica, le relazioni con gli Usa erette a partire dagli anni Settanta (e in pochi oggi ricordano la breve guerra sino-vietnamita del ‘79), le cosiddette «quattro modernizzazioni» (industria, agricoltura, scienza e tecnologia, difesa) lanciate da Deng Xiaoping, le proteste di piazza Tienanmen e la definitiva attualizzazione del modello di crescita dettato dall’affiancamento tra industria privata e pianificazione statale.

Così, in parallelo con la flessione della produzione nel settore agricolo (tant’è che negli anni Novanta il primo ministro Zhu Rongji avalla addirittura l’aumento delle esportazioni di cereali) e l’accelerazione della crescita nel settore industriale, anche al cinema l’attenzione si sposta dal mondo rurale ai nuovi centri urbani modernizzati: «la fisionomia del paese è cambiata» – scrive Guido Samarani –  «soprattutto nei grandi centri: chi ha vissuto o ha soggiornato anche brevemente, per esempio, a Pechino negli anni Settanta e vi è tornato dieci o quindici anni dopo ha fatto grande fatica a ritrovare nella nuova configurazione urbana molti di quei quartieri e di quei vicoli nei quali si era addentrato per cercare quel negozio o quel ristorantino popolare a basso prezzo». E se Moravia nel suo La rivoluzione culturale in Cina: ovvero il convitato di pietra (1978) descriveva il Paese come una successione di «risaie allagate che scintillano al sole, selve di bambù su per colline verdissime, gialli villaggi colore del fango seccato misto con paglia, contadini con i pantaloni rimboccati al ginocchio, chini sui solchi», Federico Rampini nel suo Oriente e Occidente. Massa e individuo (2020) sostiene invece che oggi «perfino il paesaggio urbano delle metropoli cinesi è una scopiazzatura di quello degli Stati Uniti».

Per rispondere a questi cambiamenti, i cineasti della «sesta generazione» hanno adottato un linguaggio che talvolta incorpora documentario e finzione senza soluzione di continuità, cercando di stabilire un’ideale presa diretta che testimoniasse le variazioni di una società double face continuamente oscillante tra capitalismo e comunismo, neoconfucianesimo e postmaoismo (lo stesso Mao una volte disse:«In tutte le cose, l’uno si divide in due»). Una chiave d’interpretazione che spesso è stata utilizzata in sede critica come un passepartout, buono per stringere in un unico abbraccio film d’ispirazione e ambizioni decisamente differenti (come mettere sullo stesso piano estetico Giorni d’inverno di Wang Xiaoshuai e gli impressionanti documentari di Wang Bing?). Ma la verità è che il cinema cinese che ha vissuto il giro di boa del nuovo millennio non è meno eterogeneo e, per certi versi, tortuoso della realtà che si è ripromesso di raccontare. A tal proposito, l’esempio più conosciuto è quello di Still Life di Jia, dove toni e forme di una ricognizione neorealista di epoca post-digitale lasciavano spazio all’irruzione improvvisa dell’irrazionale (l’indimenticabile scena della protagonista che osserva un ufo affacciatosi all’orizzonte).

L’esempio invece più chiaro è proprio quello di La donna del fiume - Suzhou River di Lou Ye (da noi in sala a ventidue anni dalla presentazione al Festival di Rotterdam in una versione restaurata in eccellente 4k e acquisita da Wanted all’ultima Berlinale). Ambientato nel nordest di Shanghai, sulle sponde del fiume Suzhou, il film interseca due vicende: quella di un innominato cineoperatore ripreso in soggettiva o semisoggettiva (a proposito della sopraccitata tensione documentaristica) che s’innamora della ballerina di night Meimei, la quale si esibisce all’interno di un’enorme vasca indossando un costume da sirena, e quella del fattorino e gangster di mezza tacca Mardar, invaghitosi invece della sedicenne Moudan, in tutto e per tutto simile a Meimei (a interpretare entrambi i personaggi è la splendida Zhou Xun).

Un gioco di scatole, tra doppi, misteri (non manca chi ha interpretato l’intera vicenda come un’invenzione del cineoperatore, che fin da subito dichiara di essere un narratore inattendibile), improvvise agnizioni e oscure fatalità, che riporta l’ideale esplorazione della realtà urbana all’interno di un meccanismo marcatamente di genere: se da una parte Lou (anche sceneggiatore) sceglie un registro noir e onirico che cita abbondantemente l’Hitchcock di La donna che visse due volte e La finestra sul cortile (la macchina da presa del protagonista prende il posto del binocolo di Jimmy Stewart), dall’altra riveste la narrazione con un abito da fiaba. Dopo che Moudan, coinvolta suo malgrado da Mardar in un piano criminale, decide di gettarsi nel fiume, la voce corrente è che la ragazza si sia trasformata in una sirena; d’altra parte, sul lavoro Meimei veste esattamente come una bambola che Mardar ha regalato a Moudan: ecco quindi che il potere fabulatorio del cinema, il carattere allegorico e archetipico della vicenda, il microcosmo cristallizzato dalla geografia ineluttabile, il serrato carosello d’incontri e colpi di scena nascondono una riflessione sul bisogno di raccontare storie come strumento per analizzare le inquietudini di una modernità urbana, dove – come mostra il magnifico incipit –  quartieri che un tempo avevano la propria identità sono stati assorbiti dai tentacoli del progresso, perdendo così la loro autonomia e confermando la lucida e amara profezia del grande sociologo e urbanista Lewis Mumford, che vedeva nei sobborghi e nelle periferie luoghi destinati a essere abitati da una «folla solitaria».

Ritratto di un mondo vuoto, dove il tempo è perso in una spirale che gira continuamente su se stessa, nell’ambito del cinema cinese contemporaneo La donna del fiume - Suzhou River si staglia come una specie di Cent’anni di solitudine: cosmogonia romantica di un mondo in declino, «costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane», dove le tradizioni scompaiono e la cronaca si trasforma quasi in mito. In Cina fu non per caso boicottato dal governo e a Lou venne impedito per due anni di girare film; oggi ha perso forse parte della sua urgenza ma certamente non la capacità impressionante di raccontare di persone comuni condannate a vivere in un mondo di finzioni.


 

La donna del fiume - Suzhou River
Cina, Germania, 2000, 83'
Titolo originale:
Su Zhou he
Regia:
Ye Lou
Sceneggiatura:
Ye Lou
Fotografia:
Yu Wang
Montaggio:
Karl Riedl
Musica:
Jörg Lemberg
Cast:
Xun Zhou, Hongsheng Jia, Zhongkai Hua, Anlian Yao, Nai An
Produzione:
Coproduction Office, Essential Filmproduktion GmbH
Distribuzione:
Wanted

Ad un giovane motociclista viene chiesto di accompagnare la figlia sedicenne di un contrabbandiere. I due si innamorano, ma quando lei scopre che lui la sta rapendo per un riscatto, si getta nel fiume conducendo lui in carcere per omicidio. Una volta scagionato incontra una ballerina: un misterioso alter ego.

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