Una serie di immagini d’archivio in bianco e nero ritraggono famiglie felici e scorrono cadenzate da una musica rassicurante, mentre una voce narrante recita: «Tutto andava bene in Svezia, la gente viveva vite confortevoli, standard di vita alti, progresso, pensiero moderno, fiducia nei nostri leader, poi venne il momento di fare un altro passo avanti…». Potrebbe quasi sembrare una fiaba, ma l’occhio documentario di Erik Gandini in La teoria svedese dell’amore rivela che dietro la serena efficienza di un paese si cela un’iper-funzionale disumanizzazione.
La teoria svedese dell’amore è stata enunciata in Svezia nel manifesto “La famiglia del futuro”, proposto dal parlamento nel 1972: l’idea di base era la realizzazione di una società che si potesse evolvere grazie all’indipendenza e all’autonomia dei singoli individui. La famiglia del futuro è dunque composta da un insieme di individui autonomi, liberi l’uno dall’altro grazie alla propria autosufficienza. L’indipendenza a cui ci si riferisce è principalmente quella socio-economica, infatti, secondo questa teoria, i rapporti umani possono essere sinceri e disinteressati solo se ognuno è messo nelle condizioni di sostentarsi autonomamente, senza dover dipendere da nessun altro.
Il regista, doppia cittadinanza italo-svedese e residente in Svezia, prova a interrogarsi sulla distorsione pratica di questo modello “ideale” e mostra, adottando una forma di sarcasmo che nasce dal parossismo, esempi concreti generati dalla ricerca dell’autonomia estrema. Se in Videocracy (2009) la genesi della videocrazia figlia del berlusconismo veniva mostrata con lo sguardo esterno di un italiano che osserva il paese d’origine a distanza, qui il punto di vista di Gandini – e dello spettatore, accompagnato (talvolta troppo) da una sempre presente voce off del regista – oscilla tra la fatica tutta italiana di adattarsi a un sistema di valori dove l’indipendenza è sancita dallo stato e l’attitudine scandinava di creare una società il più efficiente e funzionale possibile. Questa ambivalenza è resa percepibile ricorrendo allo stereotipo e alla semplificazione. Ciò permette a Gandini di individuare e dialogare con i pregiudizi sui paesi scandinavi radicati nella mente di chi guarda, portandoli all’estremo, per poi eroderli con pungente cinismo.
La Svezia è un paese in cui quasi la metà della popolazione vive da sola e anche la creazione della famiglia, sempre più di frequente monoparentale, è una questione da risolvere autonomamente. Così, tra i casi proposti, viene presentata Maria Elena, madre di due figli concepiti con l’inseminazione artificiale perché, parole sue: «Volevo un figlio, non volevo una relazione». La materia prima arriva via banca del seme e si scopre che donare sperma è considerata una sorta di attività altruistica per la perpetuazione della specie. Ma i limiti del sistema fondato sull’indipendenza vengono amaramente illustrati, perché vivere da soli significa anche morire da soli, consegnarsi all’oblio senza mancare a nessuno, letteralmente dileguarsi senza lasciare traccia. Lo stato, partner per procura dell’individuo indipendente, s’impegna, servendosi di agenzie preposte, a rintracciare i parenti delle persone decedute in solitudine, spesso ritrovate dopo anni dalla loro dipartita, barricati dietro una porta chiusa dall’interno. Secondo i dati riferiti nel film, che mettono in relazione diversi orientamenti valoriali – sopravvivenza e autorealizzazione, tradizionalismo e razionalità – a venir meno, in fin dei conti, è il senso di comunità e solidarietà: presente nella mappa dei valori dei paesi del Terzo Mondo, in via di estinzione nei paesi del Nord Europa, ormai assente in Svezia. Viene illustrata anche la condizione dei richiedenti asilo, che si trovano in una situazione straniante e paradossale nel tentativo d’integrarsi in una comunità formata da singoli individui autonomi. Quale può essere l’alternativa a questa società? Gandini fornisce un paio di esempi singolari: da una parte un medico svedese in pensione trasferitosi in Etiopia, a capo di un piccolo ospedale, che ha scelto di vivere in un paese in cui il contatto umano è fondamentale e dall’altra una comunità composta da individui – un po’ hippie e un po’ new age – che si ritirano nei boschi svedesi ad abbracciarsi, in risposta alla solitudine imposta dalla società scandinava.
In La teoria svedese dell’amore, lo sguardo entomologico e l’attenzione antropologica si combinano per ben documentare le contraddizioni di una società tanto efficiente da sembrare, in fin dei conti, quasi distopica. Dall’idillio di «un paese senza fame, senza povertà, senza persone e senza problemi, così tranquillo, così perfetto – si chiede Gandini – cosa ne ricaviamo?». La risposta, uno dei momenti più persuasivi dell’intero documentario, è contenuta nell’intervista a Zygmunt Bauman, sociologo teorizzatore della società liquida, della liquefazione del concetto di comunità e di spazio pubblico. Secondo Bauman il valore dell’indipendenza si distorce, in qualche modo, in una forma radicalizzata d’individualismo, escludendo sistematicamente il concetto di felicità, che «non significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene superando le difficoltà, fronteggiando i problemi, risolvendoli, accettando la sfida».
La gioia data dal superamento dei problemi si è estinta a causa dell’aumento del comfort nella società contemporanea e l’autonomia ricercata dalla teoria svedese dell’amore mira proprio a creare una condizione inattaccabile dall’imprevedibilità delle relazioni umane, una sorta di status quo che impedisce all’uomo di relazionarsi con l’altro da sé. Il sociologo spiega che le persone educate all’indipendenza stanno perdendo le capacità di socializzazione e di condivisione. Socializzare significa infatti negoziare e ri-negoziare se stessi, uscire dalla propria zona di comfort e scoprire una «piacevole interdipendenza». Le parole di Bauman sono alternate a fotogrammi che propongono luoghi svuotati della presenza umana: quale traccia può lasciare un individuo che basa la propria vita sull’indipendenza totale? Sembra che possa restare solo uno spazio vuoto, dove l’unico residuo del passaggio dell’uomo resta in fondo la sua stessa efficientissima, perfetta, solitudine.
Il film nasce da una riflessione sul manifesto proposto dal parlamento svedese nel 1972, "La famiglia del futuro". Il concetto in esso contenuto è che ogni relazione umana si basi sull'indipendenza: di una donna dal marito, degli adolescenti dai genitori, degli anziani dai figli. L'indipendenza però limita i contatti e le interazioni: così metà della popolazione vive sola. Perché una vita sicura e protetta può rivelarsi tanto insoddisfacente? Una possibile risposta è affidata al noto sociologo polacco Zygmunt Bauman.