Questo è uno degli ultimi scambi di battute: «I think you’ve told me more than I’d wish to know»; «Then I’ll say no more». Ovvero: credo che tu mi abbia detto molto più di quanto vorrei sapere; allora non dirò nient’altro.
Per un noir (e un copione) fondato sul dialogo, è una conclusione che più appropriata non si può. Un wrapping up (dal gergo cinematografico americano quando si finisce di girare) che non lascia vie di fuga, e che è anche una pietra tombale: una chiusura, la quadratura del cerchio, l’imbustamento finale. E anche l’officiatura di un funerale: perché The Counselor è prima di tutto il ritratto di un’Apocalisse verbale, dove la fine del mondo – il mondo così come lo conosciamo – passa attraverso la parola.
E questo è abbastanza sorprendente per un romanziere che ha fatto del crepuscolarismo la propria cifra: per Cormac McCarthy, sceneggiatore del film, la realtà è sempre stata mediata da uno sguardo principalmente interiore e interiorizzato, per il quale il sentimento (un sentimento di realtà, per l’appunto) è già un’espressione, ben più di qualunque vocalità articolata fra persone.
The Counselor, dunque, più che far vedere, dice. E nella giostra dell’inferno, fra spacciatori, avvocati ambiziosi, corrieri della droga, donne fameliche, fidanzatine ingenue, c’è anche posto per il paradosso: ma ciò che distingue questo film da operazioni come Le belve di Oliver Stone, è l’azzeramento (o comunque lo smussamento evidente) del pulp. Perché non sono sufficienti due leopardi, qualche acconciatura e un paio di scene (fra cui l’amplesso di Cameron Diaz con la Ferrari gialla, che comunque è un momento perfettamente cult) a rendere The Counselor quello che non è: dal pulp questo film sta lontano perché non gli appartiene; il grottesco, l’esagerazione e l’ironia rimangono estranei a un impianto che si sviluppa per mezzo di blocchi dialogici dove il mostruoso non viene mai esplicitato con una fontana di sangue, bensì dalla fermezza – paradossale, ma non per questo meno cupa – della messa in scena.
È difatti lo stile a essere ancora più sorprendente. Il film di Ridley Scott che non t’aspetti, oggi: la forma è riflessiva, pacata, pochissimo mossa, severa, senza lavori sull’otturatore, con un paio di ralenti quasi impercettibili. Di certo non è neanche il prodotto all-star che t’aspetti oggi da Hollywood. E dopo un inizio che sembra prendere la strada mélo-lucida del fratello Tony per Revenge, Scott via via si autodisciplina come pochi adesso avrebbero il coraggio di fare (chi non si lascerebbe sopraffare dal capriccio tanto hollywoodiano di mostrare uno snuff, che riguarda per di più uno dei personaggi principali, o dall’intrecciare magari temporalmente le vicende?).
Questa Apocalisse privilegia il discorso ma anche un campo-controcampo, piuttosto che le carneficine (che per giunta sono filmate con una classicità totalmente démodé, come la sparatoria sulla highway o l’omicidio a Londra). Perché a contare è anche come si inquadra l’Inferno. Provate a vedere la telefonata tra Michael Fassbender e il giocatore mefistofelico di biliardo (un boss del cartello della droga, immagino, anche se non viene specificato): non è soltanto una scena di dialogo finissimo, ma ha una sobrietà che definirei terminale, senza convulsioni, senza angosce estetiche. Non è cosa da poco. Fermarsi ad ascoltare la tua fine, quando già sai di essere morto in un mondo di morti, è spesso più difficile di un ultimo spasmo fisico.
McCarthy ci mette l’immanenza della parola, Scott l’intransigenza visiva: il risultato è una catastrofe che del dopo-bomba ha la definitività, e che ha la misura (una sua misura, senza derive, senza perdite, geometrica, mappale, paradossale) dell’abisso.
Un avvocato entrato nel giro della droga per curiosità, vede la sua perfetta esistenza crollare lentamente sotto le pressioni che non aveva previsto di non riuscire a reggere.