C’è tanta roba in questo Le città di pianura, opera seconda di Francesco Sossai, presentato la primavera scorsa al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, che il pressbook definisce «un road movie nella sterminata pianura veneta che viaggia alla velocità con cui si smaltisce una sbronza». E in effetti era da tanto tempo, sei anni, che Sossai aveva in mente questa storia e che prendeva in varie situazioni appunti sulla sua terra, anche se il racconto si è definito progressivamente nella mente sua e del co-sceneggiatore Adriano Candiago, ritiratisi sui colli della Pedemontana a scrivere, anzi a parlare: «Abbiamo cominciato a raccontare una storia: lui leggeva ad alta voce, io scrivevo. Poi leggevo io ad alta voce e scriveva lui. Non rileggevamo mai, non tornavamo mai indietro. Stavamo viaggiando verso una meta che non conoscevamo. Fuori dalla finestra, il cuore del paesaggio veneto: abbiamo scritto il film immersi in questo contesto e ne sono venute fuori Le città di pianura». A partire da una sbronza veneziana del regista di dieci anni prima, con un amico, e dall’incontro che i due hanno fatto in quell’occasione con un giovane studente dello Iuav. Alcol, amicizia, architettura. E soprattutto caso, formazione, generazioni. Disillusione per le trasformazioni di quello che oggi viene chiamato “territorio”, il Veneto ma non solo, e per un capitalismo che si sta mangiando tutto, dopo aver affondato le persone a più riprese (nel film è evidenziata, in particolare, la crisi del 2008, con i conseguenti licenziamenti dei lavoratori) e aver americanizzato tutto ciò che trovava sulla sua strada (di sfuggita, tra le molte chicche “nascoste” del film, tra cui un cameo di Sossai come acquirente di occhiali contraffatti, si vede svettare una Statua della Libertà in miniatura nel bel mezzo della campagna veneta); ma anche amore per questa terra, tra la laguna (di Venezia) e le montagne, come nel dipinto della villa del conte, un capriccio della Scuola del Veronese, che collega questi due poli facendo scomparire “le città di pianura” che stanno nel mezzo e non servono a niente; che comunque sono lo spazio delle scorribande notturne, e non solo, ma sempre alcoliche, di Doriano e Carlobianchi, i cinquantenni protagonisti. Amici per la pelle, nella buona e nella cattiva sorte. E amici anche di un altro personaggio, Genio, partito per l’Argentina per sfuggire all’arresto, con il malloppo della vendita degli occhiali falsi, giusto prima che scoppiasse la crisi, e rientrato da poco in Italia senza riuscire a ritrovare la parte del “tesoro” che aveva sotterrato (con tanto di mappa) in campagna, prima di andarsene, perché in quel punto ora ci sono le fondamenta di una casa in costruzione. Il nuovo che avanza (simboleggiato dalla fantomatica autostrada Lisbona – Treviso – Budapest, che dovrebbe distruggere, tra le altre cose, il giardino cinquecentesco della villa di cui sopra).
Ma si parlava di generazioni: quella dei padri di Carlobianchi e Genio e dell’operaio che va in pensione nel 2007, Primo Sossai (meravigliosa per finezza ed ironia la sequenza dell’arrivo in elicottero del proprietario della fabbrica, che quando viene chiamato “dottore” corregge l’interlocutore perché in realtà ha fatto giusto le scuole dell’obbligo, con il regalo da consegnare, per l’ultimo giorno di lavoro, a quest’operaio che ha dato la sua vita simbolicamente, e un suo dito concretamente, allo stabilimento), persone che hanno lavorato nei campi o nelle piccole aziende cresciute come funghi nella zona per poi trovarsi magari, come succede a Primo, a instupidirsi per ore in un bar davanti a un flipper; quella di Giulio (il coprotagonista), i ventenni decisamente più seri e posati dei padri, che all’occorrenza sanno divertirsi godendo di ciò che di inaspettato la vita offre loro, nonostante ciò che avrebbero da fare; e la generazione di mezzo, quella di chi è stato giovane negli anni ’90 come i due protagonisti e il loro amico, che sembra girare a vuoto dentro a un ingranaggio (politico, ma qui soprattutto economico e sociale) che a un certo punto l’ha sputata fuori, e non l’ha più fatta rientrare. Per cui “l’ultima bevuta”, per la quale non vale la teoria “dell’utilità marginale” illustrata da Carlobianchi, perché si tratta di un’esigenza (e una ricerca) che va al di là della sete, sembra essere l’unica cosa auspicabile, o almeno possibile. L’unica che dia una qualche soddisfazione, anche perché realizzabile. Possibilmente in compagnia. E magari con le lumache come le faceva la Mery, o il formaggio con la soppressa e la polenta. Giulio è travolto dai due uomini più vecchi che sembrano sequestrarlo ma alla fine riesce, dopo balli, concerti e bevute (bellissime anche queste, le sequenze dei concertini dal vivo e dei balli di tutti i tipi, con la musica, nel film, di Krano, che suona un country – folk distorto su parole del dialetto veneto), a vedere una cosa che aveva sempre avuto in mente di vedere, vedere dal vivo, non solo “in pianta”, il Memoriale Brion di Altivole, di Carlo Scarpa. Portandoci i nuovi amici prima di essere accompagnato al treno che lo condurrà a Verona, dalla ragazza che ama. E salutato dalla strada, con l’auto che corre in parallelo al treno, per un po’.
Quando il film finisce, con i protagonisti che mangiano un gelato sotto le montagne e che finalmente hanno ritrovato, nella memoria, il “segreto del mondo” a cui avevano pensato giorni prima, la sensazione è quella di una malinconia soffusa, velata da una gioia del cuore per questa storia semplice, che ha molto a che fare con Il sorpasso senza condividerne la tragicità (e, per il paesaggio e le sue trasformazioni, con le opere di Mazzacurati, Rovigo esclusa – per rifarsi a una battuta del film -, e di Rossetto). Quello che è meno semplice, e in questo caso è un elogio, è la bravura di Sossai (già, del resto, distintosi con il primo, strepitoso lungometraggio, Altri cannibali, 2021, e con il corto, a sua volta passato per Cannes, Il compleanno di Enrico, 2023), che giocando con la macchina da presa e con dettagli emblematici sparsi qua e là riesce a rendere la varietà del paesaggio veneto e le sue atmosfere umane e, soprattutto, la verità di due personaggi “persi” nel loro mondo, che però, come fa notare Giulio, è comunque, sempre, “il” mondo.
Carlobianchi e Doriano, due spiantati cinquantenni, hanno un’ossessione: andare a bere l’ultimo bicchiere. Una notte, vagando in macchina da un bar all’altro, si imbattono per caso in Giulio, un timido studente di architettura: l’incontro con questi due improbabili mentori trasformerà profondamente Giulio nel suo modo di vedere il mondo e l’amore, e di immaginare il futuro. Un road movie nella sterminata pianura veneta che viaggia alla velocità con cui si smaltisce una sbronza.