A prima vista può sembrare un rischio, un’incoscienza, perfino un grossolano errore: prendere la camera, dirigersi nella Bergamo squassata dalla prima ondata di Covid e registrare quello che accade. Senza capire bene che cosa sia e quali conseguenze possa portare. Girare un film nella città martire italiana della pandemia mentre la pandemia è in corso e mostra il suo volto più crudele è in effetti un’operazione che si presta a tantissime insidie. Prima di tutto di carattere etico e morale, ma anche di natura formale, estetica, narrativa. E che ovviamente, sulla carta, rischia di esporre a critiche ferocissime e polemiche altrettanto scomode. Eppure Stefano Savona, che nel marzo del 2020 parte dalla Sicilia con una ristretta troupe (formata da alcuni suoi ex allievi del CSC di Palermo) alla volta di Bergamo con la sola idea di documentare l’emergenza in atto e senza sapere a cosa sarebbe andato incontro, riesce a costruire un film sorprendente. Soprattutto perché passate le prime, tragiche, settimane – quelle in cui si calcola che fra Bergamo e provincia siano morte oltre 6000 persone – il regista sceglie di rimanerci nella città orobica, continuando per diversi mesi a guardarsi intorno, raccogliere testimonianze, scavare nel profondo e provare a estrarre i ricordi, le emozioni e le rimozioni degli abitanti e dei sopravvissuti.
Il film infatti si concentra sull’apice della catastrofe solo all’inizio e solo come punto di partenza. E con grande rigore: entrando negli ospedali, seguendo le ambulanze, filmando all’interno delle abitazioni dei malati e inserendo l’audio delle registrazioni delle telefonate fra medici e pazienti con tutto il carico di disperazione, impotenza, afflizione che si portano dietro. È senz’altro il momento più duro del film, quello in cui è chiamata in causa l’emotività degli spettatori ed è quasi impossibile trattenere le lacrime. Ed è anche la parte che più ci chiede di confrontare le nostre esperienze e i nostri ricordi con quello che crediamo di sapere sul Covid e su quelle terribili settimane per come ci è stato raccontato, soprattutto, da media e reportage televisivi. Savona in questo senso usa le immagini come dispositivi di estrazione, calate in una temporalità e in uno spazio differente, per mezzo delle quali osservare il dramma che ha di fronte senza dare giudizi, cercare spiegazioni o inseguire un qualsivoglia senso.
Perché, sembra capire il regista, dentro quella sofferenza e quel caos non c’è alcuna consolazione o interpretazione da trovare. E l’intelligenza di un film come Le mura di Bergamo è proprio quella di non voler in nessun modo cavalcare la retorica della resilienza, del non mollare o del “ne usciremo migliori” di cui la rappresentazione di questa tragedia si è nutrita, nel racconto mainstream, fino a oggi. Anzi, agisce in maniera contraria. Lasciando che dalle testimonianze e dai ricordi delle persone – al centro del film c’è un gruppo di cittadini, sconosciuti fra loro, che prova a condividere i propri traumi come in una sorta di terapia di gruppo – il dolore, le debolezze e le fragilità di ognuno emergano come sentimenti naturali ai quali non ha senso controbattere con alcun tipo di opposta narrazione. Nella seconda parte del film, quando il racconto si concentra su ciò che è rimasto e su come provare ad affrontare il dopo, è infatti un tema a emergere sopra a tutti gli altri: quello della morte.
Cioè uno spazio, un luogo, un oggetto che è per sua stessa natura di difficile comprensione e accettazione, ma che non per questo non può essere visto e utilizzato come dispositivo di senso e di negoziazione. E le parole dei protagonisti, che tanto quanto le immagini diventano nel film le tracce da seguire per entrare nella profondità del dolore, sotto forma di ricordo e confessione, si focalizzano su questo concetto. Dando un significato del tutto inedito alla memoria dell’esperienza traumatica della pandemia. Quello che un film come Le mura di Bergamo ci chiede di fare infatti è comprendere che di fronte a un vissuto tanto doloroso e sconvolgente il ruolo della memoria è centrale nella misura in cui si confronta con il dato di realtà più concreto. E che il compito da assolvere è quello di ricordare i morti certo, ma soprattutto di ricordare la morte.
Sono le immagini del film a dircelo in modo esplicito. Quando a fianco delle commemorazioni ufficiali in presenza delle istituzioni e delle principali cariche dello Stato, ci mostrano testimoni e sopravvissuti raccontare le loro storie, marcando in modo netto la differenza fra l’esperienza privata – che è sempre unica e a suo modo indicibile – e quella collettiva che invece è solo un’illusione, una narrazione mediatica alla quale la maggior parte di noi ha finito per aderire. Raccontare Bergamo in questo senso è quindi una scelta precisa e intenzionale, perché la città lombarda rappresenta la prova più esplicita di come il Covid non abbia colpito allo stesso modo dappertutto e di come addentrarsi in quel dolore possa essere utile per ripensare da zero e, in qualche modo, riscrivere un capitolo cruciale del nostro presente. Il concetto di “mura” in questo senso funziona molto bene come chiave interpretativa. Non solo perché le mura sono uno dei simboli più riconoscibili e celebri della città Bergamo, ma perché se da un lato danno il senso di una protezione illusoria – anche se concretamente circondano solo una piccola porzione della città, non possono comunque proteggere da un nemico invisibile e letale come un virus – dall’altro restituiscono bene l’unicità e la relatività di questo trauma.
Nella parte forse più emozionante del film un uomo anziano, scopertosi inaspettatamente guarito dalla malattia, viene filmato mentre sta per lasciare il ricovero in cui è stato ospitato. Parlando con le infermiere e altri degenti afferma di non essere contento di avercela fatta, perché ormai si era convinto di dover morire e dentro di sé aveva già fatto tutto il percorso psicologico ed emotivo di chi si trova vicino alla fine. Ora, dice, è spaventato perché quando arriverà il momento dovrà rifare tutto da capo e non se la sente di affrontare di nuovo tutto quel peso. Ecco, crediamo che nulla come questo passaggio riesca a rendere meglio il senso di smarrimento, solitudine e prostrazione cui la pandemia ha dato luogo. Ma anche quanto il cinema, come nessun’altro media, sia in grado di cogliere istanti di una tale purezza e intensità. Immagini che per toccarci nel profondo non vanno spiegate, argomentate o contestualizzate, ma basta solo guardarle.
Il documentario di Stefano Savona ripercorre il dramma della pandemia che Bergamo (e il mondo intero) ha vissuto nel marzo del 2020.