Tornare bambini. Lo stiamo dicendo da un po’ di tempo che questa sembra essere una delle prerogative del cinema d’animazione mainstream più contemporaneo. Sicuramente è diventato il motto principale (si legga legge di mercato) di casa Disney visto il notevole successo dei remake live action prodotti recentemente e in cantiere per il futuro. Certo, a volerla leggere in maniera simbolica e autoriale potrebbe trattarsi di un’idea rivoluzionaria o comunque indovinata nel suo saper intercettare la nostalgia degli spettatori meno giovani e la voglia, in tempi più che mai frenetici e cangianti come quelli che stiamo vivendo, di tornare a riassaporare la pacatezza e spensieratezza dell’infanzia.
Tornare bambini significa anche, per una casa di produzione, tornare a parlare al pubblico che per molte decadi sembrava essere l’unico riferimento di un’industria, quella d’animazione ovviamente, troppo spesso sottovalutata ed emarginata dagli adulti ma che invece nel passato più prossimo ha iniziato a dialogare proprio con i più grandi e a porgere loro l’attenzione principale.
Tornare bambini è quindi il mantra spirituale alla guida delle produzioni dal vivo dei classici Disney di recente fattura, tra cui il nuovo adattamento di Lilli e il vagabondo, distribuito direttamente sulla neonata piattaforma streaming Disney+ per edificare ulteriormente un ponte in grado di unire il glorioso passato con l’imminente futuro. Charlie Bean segue la ricetta senza un minimo di inventiva, mette in scena un copione calcato quasi pedissequamente sull’originale e lo impreziosisce con un’estetica laccata e zuccherosa finalizzata a riscuotere il gradimento degli spettatori più sensibili alla tenerezza suscitata degli animali domestici. Lilli e il vagabondo si discosta poco dal predecessore, eppure lo fa in maniera coerente e sistematica. Tutte le novità introdotte dal remake sono finalizzate unicamente a seguire alla lettera il comandamento di cui sopra.
Il piccolo gioiello del 1955 non era altro che una mirabolante e “classica” commedia sentimentale, girata ad altezza canina (gli adulti non si vedono quasi mai in volto, ripresi sempre sino alle ginocchia) e senza un vero snodo narrativo. Nessun impianto musical, nessun cattivo ben definito e nessun flashback mirato a esplicitare i sentimenti, già di per sé molto chiari, che turbano le coscienze covate nei cuori dei protagonisti.
Lilli e il vagabondo, l’originale, era sì un film per bambini, ma avevo il coraggio di trattare i bambini alla pari, senza espedienti infantili. Oggi purtroppo tutto viene ribaltato. Aumentano (anche se di poco) le canzoni, si danno volto e corpo agli adulti, l’accalappia cani viene dipinto come l’uomo nero e si sottolinea con l’evidenziatore la ferita affettiva di Biagio. Il tutto, ma questo è un altro discorso, ornato con una patina politicamente corretta che deve far fronte a eventuali critiche sessiste e razziali.
Il nuovo cinema Disney, che muta dall’animazione al fotorealismo dimenticandosi quanto sia difficile in questi termini dare forma alle emozioni e al calore di sequenze che da immaginifiche ora sembrano semplicemente posticce, sta regredendo senza accorgersene. Da maestro sta diventando alunno. Da adulto, sta diventando bambino.
Missione compiuta (?).
Lilli, una cocker spaniel americana di classe medio-alta borghese incontra Biagio, uno scaltro schnauzer randagio di città; i due intraprendono molte avventure romantiche, tra cui la scena iconica del bacio con gli spaghetti e, nonostante le differenze, diventano amici intimi, imparando il valore della parola "casa".