Lasciandosi alle spalle l’omonimo titolo del famigerato classico di Gualtiero Jacopetti del 1962, peraltro non primo di motivi di interesse sul lungo periodo e a largo spettro, ecco che a poco più di sessant’anni di distanza l’esordiente Alessandro Celli fa piazza pulita dello spazio tra le due parole e trasforma sul piano lessicale e soprattutto semantico il retaggio presente del Mondo cane che fu nelle fosche prospettive dell’attuale, suo Mondocane. La concomitanza con La terra dei figli di Claudio Cupellini, che sceglieva invece la cornice del Delta del Po cara al Neorealismo come scenario post-apocalittico, aiuta meglio a comprendere la direzione scelta di Mondocane, ambientato in una Taranto prossima futura, meno distopica di quanto si possa immaginare con l’Ilva fumogena che incombe e il mare avvelenato, che conferma la visione del produttore Matteo Rovere di investire e concorrere ad aprire nuovi varchi spazio-temporali nella geografia dei generi del cinema italiano. La location, insomma, di Mondocane non solo non è casuale, ma dimostra quel che lo schermo ha da dire giocando la carta della parabola avveniristica che porta solo alle estreme conseguenze uno spettacolo terribile sotto gli occhi di qualsiasi osservatore, di un residente sventurato, di un indotto produttivo, di un panorama umano, prima ancora di diventare con Mondocane anche spettatore cinematografico di riferimento.
Raccontare infatti di due orfani che crescono tra la zona loro assegnata e tutt’altro che fantasiosa di Tamburi, e quella relativamente migliore e per loro inaccessibile di Taranto Nuova, significa innanzitutto procedere a un discorso di indignazione collettiva. Mondocane è a tutti gli effetti, grazie alla maschera fanta-sociologica e ai richiami più o meno diretti alla tetralogia di Mad Max, o a 1997: Fuga da New York, un film di grave denuncia. La sua forma, che mescola l’azione violenta al romanzo di formazione, è perciò sintomatica del contenuto. E aiuta a comprendere meglio come serie emblematiche quali Gomorra o Suburra interpretino piuttosto l’allucinazione dell’oggi e trasfigurino il realismo in una modalità che rasenta l’apologo capovolto di un “mondo-cane” non invisibile. Anche il protagonista di Dogman, occorre ricordarlo, con la specifica sua professione enunciata nel titolo, dunque molto allusiva, ha ribadito il concetto di fondo che Mondocane dispiega. Dove la scelta di affidare a un attore-personaggio carismatico come Alessandro Borghi il compito di convogliare in veste di cattivo leader dalle maniere suadenti l’immaginario in un alveo che coniuga la suburra romana alla diuturna, fatale e irrisolta tossicità ambientale tarantina, conferma l’idea preliminare. Quella cioè di un gioco di squadra tutto italiano tra generi, titoli, piccolo e grande schermo, dove lo sdegno si fa location e i luoghi comuni a loro volta provocazione a tutto campo.
Vedendo Mondocane, insomma, la memoria, oltre a viaggiare nel tempo cinematografico dei modelli omaggiati, lascia intendere come mai opere diverse ma concomitanti, da La paranza dei bambini a La terra dell’abbastanza, da Gomorra a Suburra, film e serie, quindi da Favolacce a La terra dei figli, lancino un segnale d’allarme differenziato ma coerente, inequivocabile e trasversale. Da non sottovalutare, bensì decifrare e approfondire tra spazio, tempo, miscele di linguaggi parlati locali e nazionali, stili collettivi e modelli produttivi.
In un futuro non molto lontano, Taranto è una città fantasma cinta dal filo spinato in cui nessuno, nemmeno la Polizia, si azzarda a entrare. Sono rimasti i più poveri che lottano per la sopravvivenza, mentre una gang criminale, le Formiche, capeggiate dal carismatico Testacalda (Alessandro Borghi), si contende il territorio con un’altra gang. Due orfani tredicenni, cresciuti insieme, sognano di entrare in quella banda. Pietro, detto Mondocane per aver superato la prova d’accettazione nella gang, impone Christian al gruppo che lo deride chiamandolo Pisciasotto. Ma qualcosa si incrina nel loro equilibrio mettendo a rischio tutto quello in cui credono.