Due uomini e un MacGuffin. Se si volesse ridurre al solo nucleo, l’ultimo film di Steven Soderbergh, No Sudden Move, si potrebbe tranquillamente sintetizzare così. Due uomini, un bianco e un nero (Benicio Del Toro e Don Cheadle), mediamente disperati, diffidenti l’uno con l’altro per questioni razziali e con un passato centellinato dal racconto con smorfie e accenni, sono coinvolti in un colpo che dovrebbe essere estremamente facile (fare il babysitting pistole alla mano a una famiglia per tre ore, mentre il capofamiglia, impiegato in una grande azienda e scortato da un altro membro della banda, sottrae una busta – cioè il MacGuffin – alla cassaforte del suo capufficio).
Ovviamente, ciò che inizia come estremamente facile non può che complicarsi subito dopo, a maggior ragione nel crime, altrimenti il film sarebbe stato un remake moscio e non dichiarato di Ore disperate di Wyler, che pur è uno dei riferimenti assunti in sede di progettazione da Soderbergh e da Ed Solomon, autore della sceneggiatura. E la situazione si complica, com’è nell’indole del regista, fino a dilatarsi per superfetazione e comprendere decine di personaggi diversi, intrighi, capovolgimenti repentini, accordi e disaccordi, patti e tradimenti, spruzzi di questioni razziali e la lunga mano del Capitale che tutto avviluppa e tutto regola.
Soderbergh torna ad ambientare una storia a Detroit, così com’era già successo in Out of Sight, e si cimenta, ancora una volta, con abili criminali alle prese con il colpo della vita, come nel recente La truffa dei Logan e in tutti gli episodi seguiti a Ocean’s Eleven. Nonostante nella fase embrionale il progetto pareva dovesse svolgersi negli anni Settanta, la Detroit del 1954 scelta come ambientazione ultima è uno scenario d’epoca che permette di addentrarsi in un numero maggiore di contraddizioni, riflettendo in esse alcune delle sproporzioni esistenti ancora oggi.
Soderbergh e Solomon non accusano, non è nel loro stile, si limitano a raccontare con tono ironico di taglie differenziate poste sulla testa dei malviventi in relazione al colore della pelle, di ingiustizie catastali ai danni di un quartiere nero (l’Interstate 375 che sventrò una zona di Detroit), di corporation automobilistiche che spadroneggiano giustificando il loro potere con lunghi e deliranti monologhi, prima di ricadere in piedi in modo insperato grazie a istituzioni supine nei confronti del potere economico.
La critica sociale è solo una conseguenza del tutto, perché l’obiettivo è immergere la realtà del contesto in una grana esclusivamente cinematografica, attraverso cui guardare la metà del secolo scorso, le relazioni e i giochi di forza. Per un regista come Soderbergh che, come Tarantino e i Coen, ama riferirsi costantemente alla storia del cinema, seppur in una dimensione meno cannibalizzata del primo e tutt’altro che filologicamente (rivista e) corretta rispetto ai secondi, gli anni Cinquanta sono più che altro un luogo dell’anima, un’aura da ricreare sulle ali di una memoria che si riferisce al cinema come sensazione ed emozione, non per ricalcarne fedelmente l’esistenza.
L’immagine di No Sudden Move è curata nei minimi particolari, nei colori accesi e anche nelle superfici smaltate che fanno da corredo alla scena, come se fosse un lussureggiante melodramma in Technicolor mediato dal rigore compositivo del poliziesco dello stesso decennio. Il tutto riflesso in una ratio che replica i formati panoramici dell’epoca (il Cinemascope compare nel settembre del ’53), pur essendo deformata ai margini da un uso vistoso del fisheye, di cui non c’è grossa traccia nei polizieschi dell’epoca (se non in alcune deformazioni scopertamente espressionistiche), ma che evidentemente è ciò che si è sedimentato nell’idealizzata visione cinefila di Soderbergh (che tra l’altro cura la fotografia con lo pseudonimo di Peter Andrews).
Se le immagini anamorfizzate grazie all’obiettivo Kowa montato sulla camera digitale spalancano lo scenario come se fosse un diorama su un’epoca sublimata cinematograficamente, i contrasti mostrati nella vicenda si sostanziano attraverso attente geometrie che estremizzano angoli e spazi, esasperando la riconoscibile estetica del noir classico con angoli inclinati, scavalcamenti di campo, transizioni focali repentine che sottolineano con la loro insistenza la precarietà degli equilibri raccontati, la loro fattiva probabilità di un improvviso ribaltamento. La differenza con un noir dei tempi d’oro è però più sottile del denso colore mélo degli ambienti adottato da Soderbergh in sostituzione dei consueti coni di luce in chiaroscuro stagliati minacciosamente sulle pareti degli interni.
Tutti i personaggi di Soderbergh e Solomon, e in particolare i protagonisti, Curt e Ronald, paiono veicolati da un destino più grande di loro e invece sono esclusivamente vittime delle loro azioni, delle decisioni sbagliate assunte all’interno di un contesto cruento e (per quanto riguarda il Curt di Don Cheadle) tutt’altro che benevolo nei confronti delle persone di colore. In No Sudden Move la funzione metafisica del fato perennemente incombente è ricoperta molto più prosaicamente dal Capitale, che tutto origina e a cui tutto ritorna, immagine di un determinismo sociale (e di conseguenza anche politico) capace di annullare ogni atto di volontà e ogni piano ben congegnato per schiacciare tutto sotto il suo peso e a cui l’individuo può cercare di sottrarsi unicamente con tanta fortuna o con la solidarietà del suo stesso gruppo etnico.
Nel 1954, a Detroit, un gruppo di criminali viene ingaggiato per rubare tecnologia automobilistica. Tuttavia il piano va a rotoli in modo orribile, e i deliquenti vanno a caccia di chi li ha assunti per scoprire cosa si nasconde dietro il piano fallito.