Rivolgendosi all’amata Madeleine, James (senza Bond, per una volta) le confida che «You have made the most beautiful thing I have ever seen». Hai fatto la cosa più bella che io abbia mai visto. Vedere. Naturalmente, si vedono delle cose. Però anche le cose sono immagini. È stato scritto più volte – a ragione – che il ciclo bondiano di Craig (5 film) era chiamato a resettare e nello stesso tempo a rilanciare l’immaginario dell’agente speciale britannico con licenza di uccidere (che, sottolinea M in una scena, significa anche licenza di non uccidere). Così ha fatto, e non c’è bisogno di ripeterne ragioni e esiti.
Tuttavia se c’è una cosa che questa nuova registrazione della serie ha portato a termine è appunto porre il soggetto come mai prima – o come mai prima in modo così determinante – di fronte a delle immagini. Segno dei tempi, certo, e direi anche grazie al cielo. A partire da Casino Royale, 007 è stato obbligato (sì, un obbligo) a confrontarsi soprattutto, e quindi perfino prima del confronto con i suoi antagonisti psicopatici alla conquista del mondo, con se stesso. Meglio, con l’immagine di se stesso. Non è un caso che si tratti dei cinque episodi più prepotentemente psicanalitici (mi si perdoni il termine). Come d’altronde non è un caso che in questo modo, a forza di confrontarsi con il sé, James Bond sia finito piegato, prono, addirittura – eresia! – sconfitto.
Vedere, dunque. Hai fatto la cosa più bella che abbia mai visto. Ossia ho visto l’immagine (di me) decisiva, dopo la quale non ci possono essere altre immagini uguali. In No Time to Die James non fa che vedere il proprio io riprodotto, rifranto, accecante, accecato. Tutti i film con Craig sono modulati su continui raffronti, che si rilanciano e si rinnovano. L’immagine bondiana, e in particolare l’immagine bondiana conosciuta, attesa, prevista, adorata, l’immagine istituzionale e patriarcale, l’immagine del maschio alfa, in questi film è rimessa in discussione, e in No Time to Die chiusa.
Era accaduto una sola altra volta, con Al servizio segreto di Sua Maestà, che di No Time to Die è – precisamente e manifestamente – l’immagine riflessa. Che cosa sono i nanobot di cui si serve il villain Lyutsifer Safin, che se inoculati ti rendono vulnerabile a vita e ti espongono ai virus costruiti “a tua immagine e somiglianza”, se non delle matrici di immagini? Il nanobot come specchio di me: sono io, è il mio DNA, è il mio io. Il nanobot risolutivo per James è la sua stirpe, the most beautiful thing I have ever seen. È qui che Bond finisce e che James trova il suo più profondo significato umano.
In Al servizio segreto di Sua Maestà, Bond diveniva improvvisamente James di fronte al corpo senza più vita della neo-sposa Tracy; in No Time to Die l’immagine di sé che Casino Royale, Quantum of Solace, Skyfall e Spectre hanno già provveduto a interrogare finalmente incontra la (propria) verità. Allora poco importano le scene d’azione, che se ci fosse un regista come si deve sarebbero un po’ più di sostanza; e poco importano le parentesi mélo, che se non avessero quell’orribile fotografia smarmellata risulterebbero quanto meno più intense; e poco importano anche alcune discretamente infelici scelte di casting, tanto non è sui comprimari o sui nemici che James si guarda: ciò che conta per davvero, nel venticinquesimo capitolo della serie, è, in epoca di diffusione e moltiplicazione esponenziale di immagini, il suo straordinario tempismo mediale.
Sicché No Time to Die non soltanto riflette sull’icona (il che di per sé non sarebbe una grande novità), ma la fa scontrare con il suo senso tradizionalistico, la flette e la pone dinanzi al suo riverbero più puro. L’immagine primaria. L’immagine a grado zero. Da qui, da un urto che è una collisione identitaria ma anche, segnatamente, di genere, James non può che rinascere, e Bond non può che riattivarsi. Perché se è vero che James Bond non muore mai, anzi, non può mai morire, è altrettanto vero che oggi l’eternità della sua immagine non può essere altro che una questione di sguardo.
L'agente 007 James Bond, ormai ritirato dal servizio dopo la cattura di Franz Oberhauser, viva un'esistenza tranquilla in Giamaica, lontano dalle avventure e dai pericoli che hanno contornato la sua carriera da spia. Questa sua serenità dura davvero poco, disturbata improvvisamente dalla comparsa di Felix Leither, un vecchio amico che lavorava per la Cia. L'uomo si è messo in contatto con Bond per chiedergli aiuto per una missione: liberare uno scienziato rapito, Waldo Obruchev. Bond accetta e viene affiancato da Nomi, una nuova agente. L'impresa si rivela più delicata e rischiosa del previsto. La ricerca porterà lo 007 sulle tracce di un super criminale, Lyutsifer Safin, affiliato alla Spectre e in possesso di una nuova tecnologia che potrebbe mettere a rischio il pianeta.