«Non sono io il protagonista», dice Werner Herzog al suo interlocutore, che in teoria dovrebbe parlare di Bruce Chatwin. Lo ripete per due volte, all'inizio e alla fine di una breve digressione personale (una delle tante). Ma quello che sembra solo un dettaglio - apparentemente futile, dentro un film pieno di ricordi, paesaggi, letture, sequenze di vecchi film, incontri e testimonianze, oggetti e fotografie – assomiglia in realtà a una confessione. O per lo meno a una chiave di lettura. Non è certo un caso che Herzog abbia lasciato traccia di questo dialogo-equivoco. Per la precisione, nel sesto degli otto capitoli in cui è diviso il film, appena prima della lunga parentesi dedicata a Cobra Verde (film datato 1987, nato da Il viceré di Ouidah), quella in cui Herzog scopre una sceneggiatura piena di annotazioni di Chatwin (mai viste dall'amico regista), e che ci regala uno splendido ritratto di Herzog (fatto dall'amico scrittore): «Un compendio di contraddizioni, immensamente difficile ma anche vulnerabile, affettuoso e distante, austero e sensuale»; uno che magari non è a proprio agio nel quotidiano ma è particolarmente «efficiente in condizioni estreme»; l'unico in grado di capire e condividere «l'aspetto sacro del camminare».
No, non è una novità ritrovare Herzog come personaggio in un documentario di Herzog. Narratore, guastatore, testimone privilegiato, esploratore di luoghi inaccessibili (esteriori e interiori), avventuriero acrobata, commentatore anche feroce. Ma qui siamo al limite dell'autoritratto, anche se nella forma di un pedinamento di Chatwin, amico e anima (quasi) gemella, una “camminata” insieme a lui. Sfogliamo i diari, scritti, dello scrittore-viaggiatore, e insieme quelli, filmati, del viaggiatore-regista, dentro un percorso divagante, un vagabondaggio tra ricordi e continenti, che celebra il nomadismo e l'irrequietezza interiore. Sì, c'è la persona, e il personaggio, Bruce Chatwin, il biografo che svela dettagli inediti, la moglie che si commuove, gli scritti densi e immaginifici. Ma c'è soprattutto un modo di vivere e pensare, un'attitudine insieme fisica (fisiologica) e spirituale, un bisogno di andare alla radice di ciò che significa essere umani.
Quello che ti fa partire per la Patagonia, inseguendo il mito familiare di una “pelle di brontosauro”, in un viaggio indietro nel tempo e nello spazio, con la curiosità di un paleontologo e l'istinto di un creatore di storie. Che è poi la stessa con cui Herzog osserva lo strano, l'estremo, l'inconsueto, usando il dettaglio o il piano lunghissimo come fossero la trama e la scenografia di un film di fantascienza, il viaggio in un altrove che rivela la realtà.
Quello che ti porta a indagare i vasti territori dell'anima, oltre che della geografia, aborigena australiana, cercando il canto che consente di trovare la via, di orientarsi nei vasti “paesaggi dello spirito”, tra sogno e realtà. Gli stessi territori che va cercando Herzog nei luoghi più remoti, le storie più estreme, l'umanità più varia.
Non aspettatevi un ritratto biografico in senso stretto, nonostante non manchino le annotazioni didascaliche. Qui “l'orizzontale”, il viaggio fisico, gli spostamenti da un continente all'altro, sono solo una scusa, un'occasione per l'indagine verticale, perché Chatwin, così come Herzog, ha sempre cercato di «andare alla sorgente» di ogni oggetto e realtà, cercando il suo “dramma”: lui «prendeva i fatti e li modificava in modo che assomigliassero alla verità, più che alla realtà»; «ma non diceva una mezza verità, semmai una verità a mezza, abbelliva ciò che c'era per renderlo ancora più vero». Viene inevitabilmente da ripensare alla Dichiarazione del Minnesota, in cui Herzog rifiutava il realismo spiccio e superficiale del “cinéma vérité”, la «verità dei contabili», per esaltare invece la verità come illuminazione, poetica ed estatica, che per sua natura «è misteriosa e sfuggente e può essere raggiunta solo attraverso l’invenzione e l’immaginazione e la stilizzazione». Diceva anche: «Il turismo è peccato, viaggiare a piedi è virtù».
Camminando con Chatwin andiamo dalla Patagonia all'Australia, dall'Africa all'amato Galles e i monumenti neolitici di Avebury, perché poi si tratta sempre di tornare al «mitico luogo delle origini». Quelle impronte di mani lasciate dentro una grotta hanno un potere quasi magico di portarci lontano, verso l'inizio della storia dell'uomo, da cui è partita la grande marcia nomade, dall'Africa verso Est, dall'Asia alla Siberia, superando lo stretto di Bering fino all'Alaska, e poi giù lungo le Americhe. L'uomo si muove da sempre, anche se oggi il nomadismo è ormai scomparso, e la vita di città, sedentaria, e la tecnologia, «stanno probabilmente lavorando alla distruzione della specie umana».
Ci sono altri momenti potenti, che si trovano tra le parole di Chatwin e le immagini di Herzog, che sia il bordo di un mare di mulini a vento, o l'orlo di un precipizio su cui Stefan Glowcz sta sospeso, aggrappato a una roccia. Soprattutto è potente e commovente il ricordo dell'ultimo incontro, quando l'Aids aveva ormai completamente divorato il corpo di Chatwin. Wodaabee - il film che Herzog dedicò alla tribù nomade che si muove nel Sahel tra il Niger e la Nigeria, con i volti inquietanti e bellissimi dei ragazzi truccati per la festa (Gerewol) – è l'ultima cosa che Chatwin ha visto prima di andarsene. Chissà se ha trovato la canzone che «ti riporta al luogo cui appartieni». Camminare per indagare la natura dell'esistenza umana, e poi alla fine trovare il modo di “tornare a casa”. Herzog, intanto, continua a portare in giro lo zaino di Chatwin, con tutto ciò che di prezioso contiene.
Durante gli ultimi anni della vita di Bruce Chatwin il regista tedesco Werner Herzog ha collaborato con lo scrittore inglese ad alcuni progetti e fra i due è nata un’amicizia istintiva e profonda. In Nomad Herzog ripercorre le tracce dei pellegrinaggi che Chatwin ha compiuto alla ricerca dell’anima del mondo, attraversando continenti con l’inseparabile zaino che ora appartiene a Herzog, e che diventa il terzo protagonista del film.