L’aspetto principale del Pinocchio di Matteo Garrone, adattamento del romanzo di Collodi dichiaratamente influenzato dalle illustrazioni di Enrico Mazzanti e dalla pittura macchiaiola, è il rapporto fra immobilità e movimento, fra natura morta e natura viva. Garrone non ha bisogno di recuperare la dimensione contadina del testo originale, smontandone una presunta ideologia borghese: semplicemente, la riprende così come si presenta, con la sua tradizione materiale e il suo linguaggio, come ha scritto Eraldo Affinati, «tutto cose: “ascia”, “pialla”, “sacco”, “sporta”». Nel pezzo di legno che si muove, nel burattino incompiuto con un cuore già pulsante, negli oggetti di una quotidiana misera (un tavolo che balla, una sedia sfondata, una porta fuori dai cardini, anche una pancia vuota), il film mostra una tensione drammatica tra l’abbandono e la vitalità, tra la mestizia dolce di Geppetto e l’euforia ingorda di Pinocchio. Ed è sostanzialmente la storia d’amore fra un padre e un figlio che esprimono queste forze antinominiche.
La fedeltà di Garrone e del co-sceneggiatore Massimo Ceccherini (che interpreta anche la Volpe al fianco del Gatto Rocco Papaleo) si nota nel ritmo piano ma deciso del racconto, a riprodurre la «velocità esecutiva» (ancora Affinati) di Collodi, «un prodigio stilistico con pochi uguali nella letteratura italiana, che passa da una scelta all’altra senza soluzione di continuità». La vicenda si dispiega senza pathos o commozione, rivolta per davvero, come ha sostenuto il regista, ai bambini che non la conoscono, o non l’hanno mai vista, e quindi illustrata episodio dopo episodio (perdendo però per strada quei mille particolari che rendono indimenticabile la lettura).
Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare ripensando a quanto di fiabesco già c’è nella filmografia di Garrone (anche al di là di Il racconto dei racconti), il film è una lettura di Pinocchio che lo riassume e non lo riadatta. Di suo Garrone ci mette i dettagli (Geppetto/Benigni che urla stupito «m’è nato un figlio», la commozione del Tonno baciato da Pinocchio, l’insensibilità di Pinocchio bacchettato sulle mani di legno) e pure l’universo realistico e insieme teatrale, in cui il romanzo incontra la commedia dell’arte, che era già del Racconto e che proviene dallo Scola di Il viaggio di Capitan Fracassa e Mondo nuovo. Per il resto, quello che si vede è un compendio, non una rilettura, di Pinocchio, con le parti più buffe che dominano su quelle potenzialmente più oscure, pur mostrandone l’aspetto inquietante.
Il merito maggiore di Garrone è quello di aver creato un mondo fuori misura, troppo piccolo e troppo grande, immobile eppure in movimento, chiuso nella corte dove vive Geppetto e rivolto verso il mare lontanissimo. Lo stesso Pinocchio, ma anche il grillo parlante, i burattini interpretati da attori nani eppure legati ai dei fili o la Fata turchina bambina morta e madre celeste sono creature sottilmente spaventose e impacciate. Abitano un regno inanimato attraversato dal soffio della vita, in cui la libertà dello spirto combatte contro la prigionia del corpo. Il pianto del grillo colpito da un’ascia, l’ascia stessa e prima ancora l’evidente struttura in legno di Pinocchio, o ancora le creature animali antropomorfe e i paesaggi astorici delle location in Toscana, Lazio e Puglia (con tanto di lingua dialettale che passa dal toscano al napoletano), traducono la semplicità grezza e materiale della società contadina raccontato da Collodi e dal suo sguardo dal basso. L’innocenza di Pinocchio sta proprio nell’ottusità contadina del suo sguardo, nella scaltrezza delle sue intuizioni di bambino ingenuo ma reattivo.
Questo nuovo Pinocchio cinematografico, interpretato da Federico Ielapi, è a suo modo spietato, indifferente agli altri perché fondamentalmente ignaro di sé stesso: è antico e insieme moderno, e la sua educazione avviene passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, dando ragione alla natura episodica del film. Peccato che per le stesse ragioni, scegliendo di replicare la velocità di Collodi con un’impaginazione illustrativa, il film alla fine risulti anch’esso una mera sequenza di scene. Non piatto ma diritto, capace purtroppo di disperdere la tensione tra la dolcezza di una povertà rassegnata e la frenesia di una reazione inevitabilmente distruttiva.
A Garrone riesce di tradurre la natura campestre del capolavoro di Collodi. Nello spazio tra il silenzio degli oggetti e il miracolo della parola coglie l’attimo della nascita come evento violento e scioccante. Alla lunga però, oltre le felici intuizioni della prima parte non trova una forma cinematografica illuminante. Rispetta sì il romanzo, ma con il timore di non uscire dal suo cono d’ombra e magari trovare uno proprio sguardo altrettanto crudele o sghembo.
La storia del burattino parlante Pinocchio, creato dal falegname Mastro Geppetto, bimbo discolo e innocente, e delle sue mille avventure con i personaggi di Mangiafoco, del Gatto e della Volpe, del Grillo parlante, delle Fata turchina, di Lucignolo, del pescecane...