“È Aprile. Non possiamo avvicinarci gli uni agli altri a causa di un virus”: uscita dall’orizzonte finzionale della distopia, la pandemia è entrata nelle nostre vite, è diventata prassi, quotidianità e infine storia. Proprio per questo, mascherine e distanziamento hanno iniziato ad avere accesso alle nostre narrazioni di finzione, non più come ambientazione immaginaria e catastrofica, bensì come dati ormai assimilati del racconto del reale o almeno del realistico (ad esempio, nello spiazzante Sesso sfortunato e follie porno).
Nell’ultimo cortometraggio di Alice Rohrwacher però, il Covid-19 è un prodromo drammatico e immateriale, indagato soprattutto nelle sue derivazioni sociali ed esistenziale, facendosi occasione di riflessione sul nostro modo di abitare lo spazio. Quattro strade, disponibile da pochi giorni su Mubi, cattura con semplicità ed eleganza un nodo storico universale capace, nella sua tragicità, di unire indissolubilmente esperienza collettiva ed esistenza privata; e proprio a partire da questa biunivocità - spazio intimo e spazio collettivo, vivere domestico e vivere pubblico - Rohrwacher tratteggia in soli otto minuti un crocevia di esistenze prossime ma separate. A ricollegarle, la potenzialità poetica del mezzo cinematografico, più precisamente una vecchia macchina ritrovata in casa e una pellicola scaduta ma ancora funzionante.
Non è un caso se Rohrwacher ha optato, come ha già fatto in passato, per una patina visiva più ruvida. Attraverso la scelta di una pellicola scaduta e quindi in qualche modo colorata, espressionista e palese, il video diventa corporeo e materico, si rende evidente come mezzo espressivo, tessuto tra l’occhio umano e la realtà. Quasi come se il cinema si facesse pelle e potesse sopperire all’impossibilità di toccare e avvicinarsi ai soggetti. In fondo, la stessa autrice lo dichiara in apertura: quello del video è ora la sua unica possibilità di agganciarsi ad altre esistenze.
Un tema importante, soprattutto se si pensa al fatto che la pandemia, da una parte ha visto proprio il mezzo video digitale come strumento comunicativo fondamentale, dall’altra ha portato con sé una sovrabbondanza inevitabile quanto mortificante di immagini digitali che finiva per avere l’effetto opposto a quello dichiarato da Rohrwacher, ovvero la saturazione e la de-sensibilizzazione al dolore umano. Veri e propri documenti storici fai-da-te si sono succeduti per mesi e mesi sui nostri schermi domestici e, come in un film di Michael Haneke, si sono uniti in un flusso in cui i video delle salme trasportate e quelli dei canti patriottici da terrazza, si mescolavano in un’unica parata indistinguibile, anestetizzante e svilente. Dopo aver concluso Quattro Strade, la sensazione è quella di profonda depurazione oculare da tutto questo. Come se la ruralità lontana dell’ambientazione e la ruvidità della pellicola ci costringessero a guardare - sì, di nuovo guardare - a quell’Aprile straordinario con più attenzione alla materia umana, alla sua impronta sul terreno molle della natura.
La relazione con l’altro e in particolare con il non-congiunto è ovviamente un tema peculiare dell’orizzonte narrativo della pandemia, come abbiamo visto ad esempio nella raccolta di cortometraggi Homemade (Netflix, 2020), uno dei primi prodotti audiovisivi sul tema. Nella figura dell’estraneo si è comprensibilmente intensificato il valore negativo del rischio e dell’imprevedibilità, fino a toccare punte estreme di isterismo. In questo senso, il sentiero indagato dalle soggettive soleggiate e indomite della regista, assume un valore sociale fondamentale, non solo nel suo essere spazio di cui riappropriarsi, ma soprattutto nella sua funzione di collegamento alla collettività e alle sue potenzialità educative e culturali.
Ognuno dei suoi vicini ha infatti un insegnamento a cui poter attingere, un esempio prezioso a cui potersi ispirare, qualche parola sussurrata sotto la mascherina e riportata dalla voce quieta dell’autrice, che ricorda il narrare calmo e riflessivo di Agnès Varda e i suoi emozionanti archivi umani. Già perché, l’attitudine documentaria della regista di Corpo celeste si basa su un approccio discreto che sa emozionarsi senza mai cadere nel pietismo, una ricognizione spoglia e sincera del vivere che ricorda i toni formali e poetici della storica cineasta belga. Se ne La vita è un raccolto (2000), la spigolatura collettivizzava i soggetti umili e in difficoltà, in Quattro strade, l’azione contadina e il vivere nella natura intensificano la dimensione immaginifica del focolare, dell’unione tra esseri umani, in particolare nella sequenza che ha per protagonista la famiglia che abita oltre il prato. In fondo, anche lo stesso oggetto-sentiero è frutto di un’azione umana sulla natura; ma è un’intervenire delicato e umbratile proprio come l’azione del raccolto contadino.
Attraverso i suoi tragitti collinari, la regista da una parte ubica la sua casa in una geografia umana che trascende dai percorsi retti e predefiniti tipici dell’urbanità, dall’altra ne sensibilizza le pareti, le rende carne a contatto con altra carne, altre vite da conoscere e ammirare nella loro semplicità; una poetica dello spazio delineata in un momento in cui lo spazio nella sua funzionalità quotidiana ci era ineluttabilmente negato, una de-costruzione della distanza in un periodo in cui tutto sembrava essere possibile solo se a distanza. È con questo sguardo spoglio e essenziale che, dopo il toccante Omelia Contadina, Alice Rohrwacher torna a documentare ma soprattutto a performare la realtà rurale: una periferia umana in cui il vivere in solitudine sembra dare più valore al prossimo e in cui conoscere chi abita in fondo alla strada da al nostro rifugio il valore della protezione, senza che essa diventi isolamento.
Ciò che convince di Quattro strade è soprattuto il suo voler ripulire lo sguardo dai crismi della narrazione della pandemia, il suo narrare un evento traumatico e pervasivo attraverso il ritorno al non-sensazionalismo, alle cose piccole e semplici che ci stanno attorno. In questo senso, l’approccio visivo e narrativo di Rohrwacher è simile allo sguardo del bambino sul mondo, un’esplorazione del dettaglio e dell’azione semplice che si addentra nello spazio naturale e lo attraversa con rispetto. In fondo, alcune delle scene più documentate dalla popolazione durante la pandemia erano quelle delle timide incursioni animali, che spiazzavano la cittadinanza costretta a casa e transitavano nello spazio da cui per forza di cose si erano nascosti ed esiliati fino a quel momento. Quattro strade è proprio questo: una riappropriazione poetica del sentiero e del luogo che ci unisce all’altro, un tragitto che non smette di arrestarsi, strada dopo strada.
“È aprile. Non possiamo avvicinarci gli uni agli altri a causa di un virus. Ho pensato che posso avvicinarmi ai miei vicini di casa grazie al mio occhio magico, là dove il mio corpo non può”. Con una vecchia macchina 16mm, qualche metro di pellicola scaduta e uno zoom, Alice Rohrwacher fa visita ai suoi vicini di casa in località Quattro strade.