Confezionato come un collage di filmati degli sport estremi, di quelli girati con action-cam attaccate a caschetto e bici che impazzano su Youtube, Ride di Jacopo Rondinelli dimostra fin da subito che, più che raccontare una storia, vuole regalare un’esperienza. Sfruttando in questo senso l’impressione di realismo tipica del linguaggio del found footage, dove la “realtà” viene servita apparentemente senza il filtro del narratore, il film catapulta lo spettatore in sella alla bici, bombardandolo di stimoli visivi che restituiscono in maniera piuttosto efficace la sensazione di nervosità e velocità nella quale versano i due protagonisti. Ma, assieme all’adrenalina, Ride prova a trasmettere un costante senso di oppressione derivante dalla mancanza di libertà - di scelta e movimento - in cui la gara e le sue regole ferree obbligano a stare.
Ed è forse nell’approccio a quest’ultimo punto che si trova l’elemento di maggior interesse dell’opera, ovvero nel provare a raccontare il mondo “dell’apparire per esistere” e la sua assenza di libertà come se fosse un videogioco.
D’altronde di elementi videoludici Ride è pieno già in superficie: ci sono le soggettive da videogioco, i checkpoint, i punteggi bonus in sovraimpressione, i nemici che provano a impedire agli eroi di concludere il capitolo, i power up e perfino un boss finale. Anche la vicenda, nella sua stereotipata struttura a livelli, sembra voler ricalcare uno di quegli espedienti narrativi ridotti all’osso con cui molte avventure per console danno il via ad esperienze videoludiche strabordanti di adrenalina e pixel.
Ma per fortuna il film non si ferma a questo. Nella sua immediatezza quasi epidermica, Ride costringe i propri protagonisti, e con loro gli spettatori, a pedalare senza porsi troppe domande, ad accettare di proseguire la discesa accumulando frammenti di un puzzle impossibile da risolvere. Ben presto, però, l’illusione di sentirsi al contempo spettatori, giocatori, personaggi e autori della propria narrazione – principio su cui sono fondati gran parte dei videogiochi - non può far altro che svanire: solo a fine corsa potrà infatti emergere la consapevolezza che ogni scelta fatta durante il percorso non è frutto di un apparente autonomia decisionale, ma è il risultato di qualcosa che era già scritto e “programmato”. Niente, nella gara raccontata da Ride, è possibile senza che sia stato già deciso e pianificato dagli organizzatori. Esattamente come in un videogioco, non esistono ambienti o situazioni che lascino veramente liberi: il mondo raccontato è così schiavo di regole prestabilite da qualcun altro
Un’idea, quest’ultima, che rappresenta l’esatto opposto all’Oasis di Ready Player One, dove l’universo digitalizzato abitato dai protagonisti è dipinto come una vera possibilità di essere ciò che si vuole essere, senza limiti né vincoli. Qui invece, sogni e speranze sono risucchiati da un sistema più grande di noi, da cui non sembra esserci alcuna via di scampo. Siamo vittime della spettacolarizzazione delle nostre esistenze e l’unica cosa che ci resta da fare è montare in sella e pedalare più veloce degli altri: Ride or die.
Max e Kyle, due riders acrobatici, ricevono l'invito a partecipare a una gara di downhill con in palio 250.000 dollari. Dopo aver accettato senza esitazioni, scoprono perlò di doversi spingere oltre i limiti delle loro possibilità fisiche e psicologiche e affrontare una corsa estrema per la sopravvivenza.