L’inizio di Rimini di Ulrich Seidl è folgorante. Siamo in una casa di riposo ed un anziano, appoggiato a un deambulatore, si muove faticosamente per un corridoio cercando una via d’uscita, ma le due porte che prova ad aprire, da una parte e dall’altra dello stesso, sono chiuse a chiave. Quello che colpisce è che tutto il corridoio, anzi gran parte delle pareti della struttura, sia rivestito di carta da parati a tema naturalistico, per dare l’idea di essere in mezzo al verde, in montagna o in un campo. E che per contrasto a questo (tentato) movimento, l’inquadratura sia fissa e in campo totale, come spesso in Seidl. Realtà, illusione. Prigione.
Lo stesso anziano lo ritroviamo a fine film, a chiuderlo in maniera circolare oltre che straziante (all’attore che lo interpreta, Hans-Michael Rehberg, è tra l’altro dedicata l’opera, la sua ultima), tra canzoni naziste della giovinezza e un’invocazione insistita della madre, come se non fosse un uomo fatto e non avesse dei figli adulti e una moglie defunta; nel frattempo abbiamo scoperto che il protagonista del film è Ritchie, uno dei suoi due figli, tornato in patria per il funerale della madre e poi ripartito per la sua città di residenza, Rimini. Una parte del film avrebbe in realtà dovuto riguardare suo fratello ma il regista, dopo aver ridotto a tre e mezza le duecento ore complessive di girato (per un lavoro di cinque anni, due di riprese e tre di montaggio), ha deciso di dedicare questo primo film a Ritchie e di riservare al fratello il secondo, Sparta, in uscita al festival di San Sebastián questo settembre.
Tornando a noi: Ritchie Bravo è un cantante pop che potremmo definire neomelodico, di musica leggera vecchio stile, romantica e sdolcinata e malinconica, anzi lo è stato; adesso è un uomo maturo che vive dei ricordi di un passato “glorioso”, facendo qualche concerto ogni tanto in alberghi di second’ordine per turisti messi insieme per l’occasione e arrivati in pullman dall’Austria, vecchi fan muniti di foto e di altri gadget del cantante, che si fanno autografare. Lui ci tiene alla sua immagine: la sua casa, una villa, è zeppa di poster che lo ritraggono e di elementi che lo riportano ai tempi del successo, senza contare l’arredamento kitsch da nuovo ricco d’antan, e in effetti il suo fascino colpiva e colpisce ancora le signore, cosa che gli permette di arrotondare le scarse entrate con qualche prestazione da gigolò… Ma la realtà è che Ritchie è un personaggio patetico e desolato, dipendente dall’alcol e sempre a corto di quattrini, decadente come la città in cui vive che viene rappresentata nella stagione invernale, quando le luci sono spente e gli alberghi sono quasi tutti chiusi, le spiagge sono deserte e i turisti se ne sono andati… Un personaggio patetico che però si fa amare e ricordare, con la sua pelliccia di foca a coprire la canottiera bianca, la sua stazza da “orso buono”, il suo incedere trasognato ma presente. C’è, si fa notare. Si sa far apprezzare perché riesce nonostante tutto a donare a qualcuno qualcosa e riesce a barcamenarsi in un tempo che non è più il suo, come tanti personaggi visti al cinema (il Mickey Rourke di The Wrestler e il Toni Servillo di L’uomo in più, per citarne due). La sua impalcatura esistenziale crolla quando gli si presenta la figlia diciottenne, che non vede da anni, reclamando quello che le deve come compenso per la sua assenza, anche in termini di denaro. Situazione che lo porterà ad effettuare furti, ricatti e a perdere la casa, l’unico bene che ha, o meglio a doverla condividere non solo con la ragazza incinta, ma con il fidanzato siriano e con i membri della sua comunità, quei profughi silenti e vestiti di nero che abbiamo visto costellare le strade della città per tutto il film, accanto alle pochissime persone (baristi, albergatori, i turisti di cui sopra e poco altro, volutamente) che la popolano, dopo l’estate. O meglio, che (non) la popolano in questo film. Che vuole rendere un’idea di solitudine e freddezza, della vita ma anche, forse, di un certo tipo di società (rispetto alle aberrazioni della quale sembra che i migranti possano portare una luce diversa, anche se poi, nel finale, l’intento consolatorio e politicamente corretto non trova spazio), a partire da questa Rimini invernale grigia e piovosa, o grigia e nevosa. Deserta, suggestiva. Impeccabilmente fotografata, come sempre in Seidl. E impeccabilmente inquadrata.
Dicevamo, Ritchie Bravo si fa amare perché anche quando ruba (anzi rubacchia) o ricatta lo fa per ragioni di sopravvivenza, mantenendo l’autenticità dell’antieroe a cui ci hanno abituato un certo cinema, e una certa letteratura. Siamo dalle parti di Fassbinder, ma senza la cupezza feroce di molti suoi film (e personaggi); e da quelle di Kaurismäki, senza l’ironia di fondo del regista finlandese. Personaggi feriti dalla vita, forse dai genitori nell’infanzia (significativa la confessione relativa al primo orgasmo), che non possono non risentire di queste ferite né risparmiarle, consapevolmente o meno, ai propri figli, che a loro volta poi, come fa Tessa con i soldi e con la casa, si rifanno su di loro in un circolo vizioso: la ferita dei non amati.
E questa umanità profonda e dolente che il film mostra attraverso i suoi personaggi, il padre di Ritchie tremendo nel saluto nazista del finale ma comprensibile nella demenza che lo abita, suo fratello che sembra esserci e non esserci, forse succube di chi è stato, almeno in passato, più fortunato di lui, le donne con cui si accompagna, mature e sfiorite, una con la madre anziana al seguito, l’altra che lo affianca ad ogni costo, affittando addirittura la sua villa; questa umanità, dicevamo, Seidl la fa sentire tutta. Il suo sguardo è più “caldo” ed empatico che nei film precedenti, e la cura formale che spesso è distacco, voluto, da ciò che viene raccontato (penso a Safari ma anche a In the Basement, richiamati esplicitamente da questo film), qui si “sporca” con riprese ravvicinate, volti e corpi nel loro disfacimento, che è anche la loro verità. Una verità molto umana, appunto. Che deve anche a Michael Thomas, già collaboratore del regista e interprete di Ritchie, quel senso di tenerezza che alla fin fine rimane, dopo aver visto il film.
Richie Bravo, ex stella della musica tradizionale austriaca, è un attempato cantante che vive in una villa un tempo sontuosa e si esibisce per pochi soldi in tristi alberghetti di Rimini, accogliendo annoiate comitive di anziani e arrotonda come gigolò per alcune spettatrici solitarie, spendendo le residue energie erotiche. Nel frattempo, suo padre si trova in una casa di riposo nel loro paese d’origine in Austria. Una figlia ventenne compare all’improvviso e pretende da lui anni di alimenti non versati alla madre.