Shorta, un titolo in arabo per un film danese. È la scelta peculiare dei due registi Frederik Louis Hviid e Anders Ølholm, una dichiarazione d’intenti acuta che vuole proiettare lo spettatore in un preciso orizzonte narrativo. Si parla di polizia (shorta, appunto) e di segregazione razziale in Danimarca, a partire da quei luoghi periferici che lo stesso governo danese etichetta come ghetti. Svalegården, l’immaginario quartiere di Copenhagen abitato in maggioranza da immigrati non occidentali, si propone come il teatro ideale per ospitare la rivoluzione “dal basso” che esplode nel corso del film.
Si tratta di una rabbia sociale irrazionale e violenta, a lungo repressa, che irrompe definitivamente quando il giovane di origine araba Talib Ben Hassi perde la vita, probabilmente a causa di un’aggressione subìta da parte delle forze dell’ordine. Ce lo suggerisce la sequenza con cui si apre il film, un incipit folgorante che non può che riportare alla mente l’assassinio di George Floyd, avvenuto lo scorso anno negli Stati Uniti. Shorta, in realtà, prende ispirazione dal caso molto simile di Benjamin Christian Schou, un altro arresto violento avvenuto nel 1992 in Danimarca, ma è comunque un’opera che respira profondamente di attualità.
Il punto di vista principale è quello di due poliziotti, l’irruento Mike e il più sobrio Jens. Di pattuglia a Svalegården, Mike e Jens si ritrovano al centro della rivolta, abbandonati dal comando di polizia. Il disegno alla base di Shorta lo abbiamo già visto, da L’odio di Mathieu Kassovitz sino ad arrivare al più recente I miserabili di Ladj Ly, ma l’esordio dei due registi danesi riesce in ogni caso a brillare di luce propria. La scelta vincente, in tal senso, è la decisione di ricorrere alle coordinate stilistiche dell’action e del cinema di sopravvivenza, elementi capaci di donare al film una sua dimensione specifica.
La fuga di Mike e Jens, spettacolare e violenta, si presenta anche come un’occasione per riflettere sulle differenti posizioni ideologiche dei due poliziotti. Mike non nasconde l’odio verso coloro che percepisce come stranieri nella “sua” terra, ed è lui stesso a provocare i cittadini di Svalegården poco prima dello scoppio dell’effettiva rivolta. Jens, dall’altro lato, sembra di vedute opposte, più ampie e tolleranti rispetto al suo collega, sebbene ignavo dinanzi ai suoi comportamenti.
Allo stesso tempo, però, Hviid e Ølholm non riducono il discorso a una logica binaria. Il dualismo rappresentato dai protagonisti viene costantemente ribaltato nel corso della fuga, aprendo a nuove prospettive per entrambi. La situazione sociale descritta in Shorta è estremamente complessa e non può essere ricondotta a una semplice contrapposizione manichea. Ce ne accorgiamo nel momento in cui assistiamo a un gruppo di ragazzi pakistani saccheggiare un negozio di alimentari gestito da loro connazionali. O, ancora più chiaramente, nel rapporto tra i due poliziotti e Amos, un giovane di Svalegården trattenuto per motivi futili che finisce per trovarsi con loro in fuga dalla rivolta.
Hviid e Ølholm espongono alcune delle criticità e dei problemi relative all’integrazione sociale e al rapporto tra le forze dell’ordine e la popolazione, circoscrivendole in un’opera di genere che rileva nell’action thriller il mezzo più efficace per esaminarle. Uno sguardo sul contemporaneo, dunque, che riesce a raggiungere con fermezza e lucidità il proprio obiettivo.
Jens e Mike, due poliziotti, sono di pattuglia nel ghetto di Svalegården quando si diffonde la notizia della morte del diciannovenne Talib Ben Hassi, morto a causa della polizia. Ben presto nel quartiere salgono rabbia e tensione. I due agenti si ritroveranno così a dover lottare con le unghie e con i denti per trovare una via di uscita e salvare la loro pelle.