Mancano poco meno di due settimane, e poi Roma zac!, chiude i rubinetti dell’acqua. La siccità che la travolge dura da più di un anno. La gente ha sete, e custodisce l’acqua ricevuta in dono dalla Valtellina come il Sacro Graal. La gente sviene, e probabilmente c’entrano gli insetti (in particolare gli scarafaggi, che abbondano tanto sul suolo pubblico quanto nei cessi privati). Ci sono gli influencer, gli scienziati e i medici. Ma c’è anche chi ha perso il posto, chi si ribella a suon di violente manifestazioni di piazza e chi si ritrova casualmente fuggitivo (dal carcere). È la società. È il presente. Society – The Horror.
Evitiamo però, per carità, confronti azzardati e irrispettosi, Carver, Altman e compagnia bella. Il cinema di Virzì ha sempre lo stesso problema: vuole fare i conti con la commedia all’italiana pur quando amplia le proprie ambizioni e i propri orizzonti. E allora giù di caricatura, di virgolettata greve. Ogni passaggio di Siccità, ogni personaggio, ogni sviluppo soffre di un incancrenimento endemico che lo rende macchietta appena nato. Il tassista ex autista di auto blu con codino, cocainomane, sveglio per miracolo e solo come un cane, tanto da parlare coi morti (genitori compresi); la cassiera ex libraia che manda le foto del seno a un suo ex compagno di classe (mentre lui risponde con le foto del pene, ma il film è pudico, non ce lo mostra); il teenager molto angry, in particolare con mamma e papà; la teenager seria e con la testa sulle spalle, a tal punto da innamorarsi di un ragazzo nero; il barbone ex bottegaio con cane, debiti e una pratica da avvocato che sa bene rimarrà inevasa; il bodyguard semi-analfabeta e violento ma tutto sommato dal cuore d’oro; i proprietari delle Terme per ricchi che mentono e confidano sull’ignoranza: ce n’è a sufficienza da riempire il manuale del cabaret più volgarmente bozzettistico.
Con un’adesione tra attore e personaggio di matrice televisiva: Max Tortora nei panni del clochard per necessità assomiglia a Max Tortora che veste i panni di un clochard; Silvio Orlando che fuori dal carcere balbetta in ciabatte sembra in tutto e per tutto Silvio Orlando che trascina i piedi e fa finta di non riuscire a fare i conti con un mondo mai conosciuto. Per non parlare di Monica Bellucci che fa la signora bene che riempie irresponsabilmente la vasca idromassaggio «tanto l’appartamento è intestato al mio ex marito».
Non è colpa degli interpreti: è colpa di un copione (firmato a otto mani, Francesco Piccolo, Paolo Giordano, Francesca Archibugi e lo stesso Virzì) che guarda con la soavità di un elefante alle proprie ambizioni di affresco contemporaneo quando avrebbe fatto meglio a guardare al proprio cuore. E a tranciare di netto, una volta per tutte, il cordone che lo vorrebbe inopinatamente legato a un genere morto e sepolto.
Non basta la tanto attesa pioggia che con prevedibile forza simbolica giunge nel finale a mondare peccati e vizi, uomini e donne, miserie e crudeltà: Siccità è soffocato in una camera iperbarica di trucco e parrucco provinciale. Questa Roma non è (una) Roma capitale (per quello, e con i medesimi intenti, bisognerebbe tornare a Suburra), bensì il modesto palcoscenico su cui va in scena un Don’t Look Up da teatro dialettale.
A Roma non piove da tre anni e la mancanza d’acqua stravolge regole e abitudini. Nella città che muore di sete e di divieti si muove un coro di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, vittime e approfittatori. Le loro esistenze sono legate in un unico disegno, mentre ognuno cerca la propria redenzione.