Tre ragazze escono da una festicciola in un locale. Il padre di una di loro le deve riaccompagnare a casa ma, poco prima di partire, viene aggredito da un giovane uomo inespressivo che rapisce le giovani e le nasconde in una cantina. Tutto è molto asettico, professionale: l’uomo sembra agire meccanicamente, obbedendo a una precisione di gesti, come se quella fosse una macabra routine. Qualcosa però segnala delle anomalie nella gestione della prigionia: gli atteggiamenti del carceriere sembrano ondivaghi – a tratti è severo e crudele, a volte docile e collaborativo – e il senso di spaesamento tracima dallo schermo fino a insinuare dubbi nella mente dello spettatore.
La verità, che viene subito a galla, è che il ruvido Barry, il bimbo Hedwig, la delicata Patricia, il pacifico Kevin abitano tutti nella stessa mente (e nello stesso corpo, quello di James McAvoy, totem magnetico di un racconto molto fisico e perennemente sopra le righe) assieme a molti altri: ventitré incarnazioni che agiscono in maniera autonoma, spesso in conflitto l’una con l’altra, in uno stato di perenne frantumazione narrativa che moltiplica il gioco di specchi fino a una sorta di parossismo sfrenato.
Ispirato alla storia vera di Billy Mulligan, sociopatico americano dalle molteplici personalità il cui caso divenne un precedente importante per il dibattito forense, Split è l’occasione per M. Night Shyamalan di mettere in scena un caleidoscopio narrativo – un perenne split-screen di racconto, fin dal titolo – in cui ogni rilancio, come in una partita di poker professionale, nasconde sempre un brivido, il dubbio di un bluff, la ricerca del punto perfetto come colpo di scena esemplare.
Split si costruisce come una galleria di personaggi ipotetici, azzera ogni forma di introspezione psicologica (ebbene sì, anche se è un film su un paziente psichiatrico!) per concentrarsi sulla potenzialità combinatoria dell’impalcatura narrativa, sulla matrice corporea e terrena dell’immagine cinematografica.
A fare da collante in questo impazzito gioco di rimandi c’è la canonica psichiatra (Betty Buckley, la Abby della Famiglia Bradford, a regalare un’idea di materno calore) che vede con preoccupazione il crescere e l’affermarsi di un’ultima e potenzialmente letale nuova personalità. Ma la credibilità – anche se appoggiata alla stampella della “storia vera” – è l’ultima delle preoccupazioni di Shyamalan, i cui sforzi sono completamenti assorbiti dall’utilizzo estremo del dispositivo narrativo, dall’applicazione registica – claustrofobica, ritmata, sincopata – della scansione dei twist di sceneggiatura.
Shyamalan, scottato dai fallimenti ad alto costo, sembra rinvigorito e protetto dalla cura low-budget del produttore Jason Blum, premiata tra l’altro da un clamoroso ritorno di fiamma del suo pubblico. Se già nel found-footage di The Visit e nel suo gotico da fiaba nera aveva cercato nuove strade per ingarbugliare il suo tipico labirinto narrativo, in Split il mosaico psicopatologico del protagonista è terreno fertile per rilanciare una sorta di mistica della mistificazione, il gusto estremo del ribaltamento, la necessità quasi ossessiva di generare stupore e spaesamento.
Se è ormai alle spalle il titanismo fallimentare di L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, sembrano lontane anche le velleità autoriali di The Village e di Lady in the Water, che resta comunque il film più personale e teorico di Shyamalan. Split, in questo, appare un oggetto funzionale soprattutto se liberato dalle troppe sovrastrutture che gli appassionati sentono la necessità di affibbiargli: è un purissimo b-movie dalle consapevoli e divertite discendenze hitchcockiane (e depalmiane), in cui l’accumulo programmatico delinea lo stile – peraltro lucido e controllato nella sua frenesia – e in cui tutto, compreso il colpo di scena finale, tende a costituire un universo di riferimento fumettistico, un immaginario popolare (e orgoglioso di esserlo), un brand riconoscibile.
Split è, in fondo, un gioco di ruolo per immagini dedicato a un pubblico pronto ad accettare le regole, non sempre oneste, dettate dai capricci e dal talento di un regista-mago.
Anche se Kevin ha mostrato ben 23 personalità alla sua psichiatra di fiducia, la dottoressa Fletcher, ne rimane ancora una nascosta, in attesa di materializzarsi e dominare tutte le altre. dopo aver rapito tre ragazze adolescenti, guidate da Casey, ragazza molto attenta e ostinata, nasce una guerra per la sopravvivenza, sia nella mente di Kevin, che intorno a lui, mentre le barriere delle sue varie personalità cominciano ad andare in frantumi.