Abituato da sempre (Polytechnique, La donna che canta) a intrecci tortuosi e a una concezione rivelatrice delle immagini, Denis Villeneuve non rinuncia apparentemente alle stesse caratteristiche anche per Prisoners, nonostante non firmi direttamente la sceneggiatura, scritta da Aaron Guzikowski qualche anno fa.
Apparentemente. Perché se è vero che anche Prisoners - pur non infrangendo la linearità del tempo come i due esempi citati - si nutre di snodi narrativi decisi e di efficaci colpi di scena continuamente stimolati da inquadrature insostenibili (il piano ravvicinato su Paul Dano gonfiato come una grottesca zampogna, per citarne una), è altrettanto vero che il dissidio morale sollevato dal film trova nel racconto solo un veicolo di propagazione e nelle immagini un puro correlato espressivo. Perché la chiave di lettura di Prisoners è essenzialmente sonora, ed è tale aspetto, con la sua aleatorietà, a condizionare l'intera impalcatura etica alla base del film.
È lecito che Hugh Jackman, padre accecato dalla disperazione, torturi fino a massacrarlo un sospettato che la polizia ha scarcerato per decorrenza del termine di custodia? Su questa dirimente domanda Prisoners edifica il dubbio di una risposta univoca. Risposta che prescinde dall'ideologia di ognuno, giustizialista o garantista che sia.
Hugh Jackman, captando le frasi che l'accusato gli rivolge in modo estemporaneo, va realmente oltre le apparenze di un Paul Dano considerato dal detective Jake Gyllenhaal incapace di nuocere a causa del suo ritardo mentale? Una frase tendenzialmente provocatoria come «Non hanno pianto finché non le ho lasciate» o l'indizio relativo al labirinto in cui le due bambine scomparse sarebbero state recluse rappresentano lo squarcio improvviso su una responsabilità che la polizia non è ancora in grado di accertare oppure un passaggio di livello verso un'ottica inattendibile, suggerita dalla rabbia avvilita del padre e dalla presenza sempre più insistente di una bottiglia in cui affogare la sofferta frustrazione? Soggettività o allucinazione acustica?
Nel dubbio, in un gioco (perverso) di inevitabili rispecchiamenti, nella furia giustizialista del padre si condensa l'identificazione dello spettatore, anche di quello più garantista, in una sorta di imperativo categorico a causa del quale quando ci sono figli e minori di mezzo è vietato dubitare da che parte stare. Lo spettatore, pur socchiudendo gli occhi, accetta come extrema ratio la trasformazione del padre in carceriere e carnefice in virtù di un'incertezza percettiva. Assolutamente voluta, tenacemente cercata, costantemente inseguita. Fino alla fine del film.
Nell'ultima inquadratura, un primo piano attonito di Jake Gyllenhaal entra in relazione con un suono proveniente dal fuoricampo, da un anfratto che solo lo spettatore conosce. Un suono articolato per mezzo di uno strumento più volte evocato in precedenza. Può essere la salvezza che lo spettatore, per il gioco identificativo operato, auspica ardentemente. Il detective sente il suono, ma ne percepisce la reale natura?
Ancora un dubbio. L'ultimo. Stacco. Fine del film.
Keller Dover sta affrontando il peggior incubo di ogni genitore. Sua figlia di sei anni, Anna, è scomparsa Insieme alla sua giovane amica, Gioia, e con il passare del tempo il panico dilaga. Il responsabile dell'investigazione, il Detective Loki ha arrestato l'unico sospetto, ma la mancanza di prove lo ha obbligato a rilasciarlo. Sapendo che vita della figlia è in pericolo, Keller non ha altra scelta se non prendere la situazione nelle proprie mani. Il padre disperato farà ditutto per trovare le ragazze, rischiando la propria vita.