È nota la lezione di Godard sul prodotto film, che ha sempre un inizio, un centro e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine. Da quando lo disse (e lo fece), però, la narrazione ha attraversato un nugolo di fasi differenti che hanno declinato l’assunto in mille possibilità. The Father - Nulla è come sembra, tratto da una pièce teatrale che Florian Zeller ha sceneggiato insieme a Christopher Hampton e diretto, ne è un perfetto esempio, pur esibendo una sua specificità concettuale condita da un apprezzabile equilibrio nel trattare un argomento così penoso senza risultare eccessivo oppure, di contro, formalmente freddo.
Inizio, centro e fine in The Father sono soltanto successioni convenzionali che introducono svolte e nessi paradossali: nell’osservare il deterioramento cognitivo di un anziano genitore attraverso i suoi rapporti con la figlia, le consuete scansioni del racconto sono una sorta di blocco unico e indistinguibile che punta all’accumulo di eventi sgradevoli e imbarazzanti per illustrare una situazione diventata progressivamente sempre più ingestibile. Al contrario degli altri lavori dedicati allo stesso argomento, The Father rinuncia in partenza a ogni pretesa di riscontro obiettivo, per immergersi in una narrazione condotta in modo apparentemente sconnesso e disorganico per simulare e rendere tangibile una soggettività malata e totalmente inattendibile. Se i film sull’Alzheimer ci hanno abituati a un’oggettività esterna fatta di reazioni prima sorprese e poi scorate e a percorsi di crescente sfaldamento finalizzati a determinare una sorta di imbuto emotivo (Still Alice, Away from Here, le variazioni sul tema date dall’allegoria poetica di Poetry o dall’astuta rivelazione finale di Le pagine della nostra vita), The Father si tuffa letteralmente all’interno del dramma, rimanendo completamente invischiato nelle sue dinamiche per rispecchiarlo nella struttura.
Nel suo sforzo tutt’altro che facile di mimesi, Zeller frantuma ogni parametro temporale e i riferimenti ambientali, proponendo una logica immaginaria fatta di salti, buchi logici, loop disorientanti e penosa ciclicità. The Father priva lo spettatore di ogni ancoraggio perché è narrato con il filtro di una prassi esistenziale deformata da false convinzioni, sedimentatesi in un cervello dalle sinapsi ormai logore a cui Anthony Hopkins offre una gamma ampia e spiazzante, fatta di toni antitetici in cui lo spazio intercorrente tra l’uno e l’altro appare davvero inquietante. E così l’architettura della casa diventa una planimetria escheriana nella quale il corridoio sfocia naturalmente nella stanza di una casa di cura; stanza della casa di cura che forse è lì da sempre, solo percepita con un differente arredamento. Allo stesso modo il quadro che testimonia l’esistenza di una (altra) figlia sparisce lasciando un alone sulla parete che allude ai lacerti della memoria che fu. E ancora, l’incontro con un’amabile badante è probabilmente avvenuto ma capirne l’esatta collocazione si trasforma in un ostacolo insormontabile.
La realtà si materializza intorno a un immaginario smarrito che accumula osmoticamente giorni e luoghi differenti attraverso i poli opposti dell’attualizzazione del passato o della sua netta cassazione. Si gioca sulla percezione individualizzata del tempo, ribadita attraverso il refrain del continuo smarrimento dell’orologio del protagonista, probabilmente la scelta più banale dell’intero impianto ma motivo ricorrente di un tempo fuggito che permea ogni aspetto della soggettività del personaggio. Una soggettività, peraltro, inseguita ma tuttavia non esclusiva, poiché diverse sono le deroghe rispetto al concetto di focalizzazione, senza che la sommatoria delle prospettive possibili serva a determinare una verità assoluta e verificabile. Tutto nel film si traduce in potenzialità, in ipotesi, in supposizione, anche le brevi scene che illustrano le reazioni della figlia, mostrata in rapidi momenti di pausa, lontana dalla costante tensione di un padre che richiede un investimento materiale ed emotivo totale. Non importa sapere se Anne, la figlia, splendidamente incarnata dalle reazioni ore disorientate, ora addolorate, ora indecise di Olivia Colman, sia sposata o divorziata, se davvero ha conosciuto un uomo che la porterà con sé a Parigi, «dove non parlano neanche inglese», perché The Father lacera il concetto di verità e la possibilità stessa di una ricostruzione effettiva. A che pro servirebbe una sua verifica, laddove esiste solo la realtà inconfutabile della malattia?
Sgretolando i parametri di orientamento all’interno della narrazione, The Father sposta l’asse con cui il cinema, andando oltre l’iniziale presupposto godardiano, ha rappresentato la dissoluzione del soggetto attraverso il cortocircuito dei punti vista possibili. Ma se a cavallo del nuovo millennio, quando la tendenza divenne particolarmente sfruttata, il soggetto entrava in crisi a causa di patologie dissociative che rispecchiavano l’assurdità schizofrenica del tempo vissuto (Strade perdute, Fight Club) o per colpa di un trauma patito che si trasformava in premessa drammatica (Se mi lasci ti cancello, Donnie Darko) oppure anche come conseguenza del coinvolgimento in universi distopici (Strange days, Matrix), The Father riporta tutto a un’esperienza più umana e in qualche modo più angosciante, perché può riguardare ognuno di noi o dei nostri cari, senza che nessuno di noi o dei nostri cari abbia mai avuto l’ambizione di essere un eroe della fiction.
Un uomo anziano rifiuta categoricamente ogni assistenza da parte della figlia, nonostante l'età inizi a farsi sentire. Con il passare del tempo, e mentre cerca di venire a patti con i cambiamenti ai quali la vecchiaia lo costringe, l'uomo inizia a dubitare di ogni cosa; dei suoi affetti, della sua mente e persino della realtà che lo circonda.