The House, da poco disponibile su Netflix, è una fiaba segmentata in tre episodi divisi temporalmente, ma ambientati nella stessa, imponente casa. È un racconto antologico che parte dall’Ottocento gotico attingendo alle atmosfere di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shilery Jackson e approda ad un futuro semi-onirico, passando per un presente kafkiano, straniante e nichilista. Si può anche parlare di una narrazione ellittica la cui protagonista è proprio la casa, elemento obliquo che da ambientazione diventa istanza attiva, riflesso delle proiezioni dei personaggi, che diventano quindi non solo ospiti ma parte stessa dell’abitazione.
La tecnica dello stop-motion è capace di restituire, oltre che un’astrazione inquietante, anche una sensazione di matericità nel connotare sia l’ambiente che i personaggi. L’interno domestico, monolitico nel suo attraversare le epoche, dialoga coi tre protagonisti di quest’opera e assume, episodio dopo episodio, una connotazione diversa.
Se per la piccola Mabel del primo racconto (E dentro di me, si tessero menzogne di Emma de Swaef e Marc James Roels) la casa è un contenitore sconosciuto e pericoloso, privo dei valori di accudimento e intimità della vecchia umile dimora, per il costruttore del secondo episodio (È smarrita la verità che non si può vincere di Niki Lindroth von Bahr) diviene corrispettivo di una rimozione, la resa planimetrica di ciò che non si vuole vedere, e quindi un edificio le cui pecche vanno celate sotto un arredamento importato e assemblato ad hoc.
In entrambi i casi la casa non ha storia e, quindi, non ha identità: vissuta come status-merce tanto da oggettificare i propri inquilini nel primo episodio, invasa e violata nella sua soglia dai possibili acquirenti nel secondo, si svuota dei valori di protezione e intimità, diventa ambiente nemico, non nido ma prigione da cui scappare.
Il terzo e ultimo, toccante episodio (Ascolta bene e cerca la luce del sole di Paloma Baeza), la vede ergersi nel mezzo di una distesa acquea, ancora nel bel mezzo un rinnovamento, una ristrutturazione. Questa volta la casa, per quanto e in quanto malconcia, custodisce una storia, conserva le impronte della sua natura domestica, è vissuta e storicizzata. «Love your past but travel on» dice la Jen doppiata da Helena Bonham Carter alla coinquilina protagonista Rosa che, ricordando il protagonista de La casa dei piccoli cubi, è ossessiva nel suo voler salvare la casa dal qui e ora apocalittico e post-umano in cui è collocata.
In fondo, come il cortometraggio di Kunio Katō, The House mette in campo la dimensione abitativa come testimone del rapporto che i personaggi hanno con il tempo e la crescita e quindi con loro stessi. Diventare adulti, accettare la perdita e il cambiamento come passi necessari dell’esistenza: è proprio tramite le sue sfide così intime e insieme universali che quest’opera, capace di immergere il pubblico nei suoi interni animati, riesce dapprima a inquietare e infine a commuovere lo spettatore.
In diverse epoche, una famiglia povera, uno sviluppatore ansioso e una padrona di casa stanca si legano alla stessa misteriosa abitazione.