M. Night Shyamalan

Trap

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Il cinema di Shyamalan è un duplice luogo che a volte risulta troppo stretto per le intenzioni che palesa. Da un lato, è l’ambito del dilemma etico di impossibile soluzione, talmente impossibile che spesso la premessa appare particolarmente ambiziosa per essere poi adeguatamente sviluppata. Dall’altro, è il posto in cui la narrazione vive continuamente di false piste e inversioni, il cui scopo è spiazzare lo spettatore per sorprenderlo con twist ripetuti sempre più complessi da sostenere. La conseguenza è una carriera incostante, che a suo modo persegue una certa coerenza e che, proprio per tale motivo, negli ultimi quindici anni ha prodotto risultati quanto meno discutibili, con la sola eccezione di Split e di Bussano alla porta.

Trap è un esempio valido di questo duplice aspetto. Un padre amorevole, forse un po’ troppo trendy (ma è Josh Hartnett e quindi ci si può anche credere), accompagna la figlia al concerto di una diva pop, un po’ Lady Gaga e un po’ Rhianna (ma si tratta di Saleka Shyamalan, la figlia di M. Night, che canta le sue vere canzoni) e scopre che l’arena è completamente circondata dalla polizia, perché, come gli rivela un rivenditore di magliette nonostante sia un’operazione top secret, sta cercando un pericoloso assassino, conosciuto come “il Macellaio” (curioso che l’uscita del film anticipi di qualche giorno i concerti annullati a Vienna da Taylor Swift per pericolo di attentati: Shyamalan sciamano?). Il dubbio è restare a far vivere il sogno alla propria figlia adolescente o cercare una via di fuga? Ma il dilemma dell’amorevole padre (il quale, a dire il vero, lascia troppo sola la figlia in mezzo a 20.000 ragazze euforiche per essere davvero amorevole, pur essendo consapevoli di quanto sia ingiusto che l’apprensione personale si trasformi in rilievo critico) si dimostra solo il presupposto, per di più fuorviante, per il primo dei tre twist che caratterizzano il film.

Sbanda anche questa volta, Shyamalan, nemmeno a dirlo. Eppure, nell’ormai consueta instabilità delle sue storie, qualcosa di apprezzabile c’è. Proprio in quei twist che i fans reputano il marchio di fabbrica e i detrattori, invece, l’unico modo che gli attribuiscono per caratterizzare i suoi film, si assiste in almeno due momenti (il terzo è un finale che in altri casi potrebbe alludere a un secondo episodio, mentre qui è solo l’ennesimo sberleffo) a un radicale mutamento di equilibri che incidono sulla costruzione della tensione. Subendo il gioco delle inferenze e delle supposizioni, lo spettatore è così sballottato di colpo tra il genitore che avrebbe dovuto preservare la figlia dal pericolo e la figura di un criminale che controlla sadicamente a distanza un prigioniero in cantina, rivelandosi fin dalle prime scene come la preda ricercata dall’intero dipartimento di polizia. Inevitabilmente, la tensione si condensa sul conflitto intercorrente tra l’istinto di conservazione del maniaco e l’incolumità della ragazza, improvvisamente diventata possibile scudo delle nefandezze del protagonista, poco prima amorevole padre.

Il mutamento di segno sta nella condivisione con il pubblico della mente del serial killer, il cortocircuito nel non avere piena contezza della parte verso cui porsi, se seguire il flusso fluido delle immagini o una logica razionale ed etica che si dimostra impossibile, perché auspicandola, il film finirebbe di esistere. Perché l’organizzazione delle immagini di Shyamalan è ritmata e spesso ipnotica, ben diversa dall’incoerenza delle sue sceneggiature, in cui i conti il più delle volte non tornano e l’assurdità è celata dal coinvolgimento e tollerata soltanto perché altrimenti la storia non potrebbe proseguire. Citeremo un solo esempio tra tutti, assolutamente incontestabile, perché altrimenti verrebbe minato tutto il pretesto narrativo: come pensare di individuare un sospettato tra 20.000 persone, anche solo facendo riferimento a un paio di migliaia di uomini, sulla base di un flebile indizio (un tatuaggio) e dell’intuizione di un’enigmatica criminologa? (La criminologa è Hayley Mills, che non voglio pensare sia stata scelta soltanto perché giovane protagonista della serie di commedie quasi omonime The Parent TrapIl cowboy con il velo da sposa, ma da un nerd come Shyamalan ce lo si potrebbe anche aspettare)

È da riconoscere che l’abilità di Shyamalan in Trap sta anche nel rendere vicendevoli primo piano e sfondo, evidenziando drammaturgicamente il palco su cui la figlia Saleka nei panni di Lady Raven accende l’esaltazione delle sue fan, in una sorta di rack focus concettuale, di transizione focale (è il secondo twist) che agisce sull’elemento scenografico per trasformarlo in fulcro del racconto. Anche in questo caso si ribaltano le prospettive e si mescolano i criteri di ricezione del pubblico, trasformando l’idolo oggetto di venerazione e isterismi variamente assortiti in soggetto attivo nella vicenda con l’avallo dello stesso Shyamalan, zio della pop star in un cameo più metanarrativo che semplicemente occhieggiante; in questo modo il racconto esclude chi era centrale (il serial killer), accantonandolo in un fuoricampo dal quale si ha ben presente la minaccia pur agendo convulsamente per fermarne la violenza. Quando non scade nelle incongruenze sempre in agguato, Shyamalan dà vita a lavori rapsodici, che si sviluppano con movimenti alterni e affioranti, talvolta sorprendenti. A patto di abbandonare completamente il senso logico e affidarsi quasi esclusivamente alla forza delle immagini.


 

 

Trap
Stati Uniti, 2024, 105'
Titolo originale:
Trap
Regia:
M. Night Shyamalan
Sceneggiatura:
M. Night Shyamalan
Fotografia:
Sayombhu Mukdeeprom
Montaggio:
Noemi Katharina Preiswerk
Musica:
Herdís Stefánsdóttir
Cast:
Josh Hartnett, Ariel Donoghue, Saleka Shyamalan, Alison Pill, Hayley Mills, Jonathan Langdon, Mark Bacolcol, Marnie McPhail, Kid Cudi
Produzione:
Blinding Edge Pictures
Distribuzione:
Warner Bros. Pictures

Un padre e una figlia adolescente partecipano a un concerto pop, dove si rendono conto di essere al centro di un evento oscuro e sinistro.

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