«Una commedia intergenerazionale, di quelle che non sono mai mancate nella tradizione hollywoodiana, pensa come avrebbero lavorato loro, sullo stesso soggetto». Questa è una delle osservazioni, non sempre pertinenti, che serpeggiavano dopo la presentazione di Toni Erdmann in concorso a Cannes 69. In effetti, gli ingredienti ci sono.
Winfried è un insegnante di musica in pensione (darebbe in teoria lezioni private, ma si ritrova senza allievi), dotato di una propensione spiccata alla burla e al travestimento, e lo si capisce fin dalla primissima scena. Alla morte del cane, cui era particolarmente affezionato, vola dalla Westfalia a Bucarest per ricostruire il rapporto (recuperare il tempo) con la figlia Ines, manager in carriera; l'area di expertise della giovane, si scoprirà, sono la riorganizzazione e delocalizzazione delle aziende, con una propensione alla riduzione dei costi per la via tutt'altro che leggera dei licenziamenti in blocco. Il regalo che il padre offre alla figlia, un po' imbarazzante, e in imbarazzante anticipo rispetto al suo compleanno, in combinato disposto con una domanda fatidica, «sei felice?», induce Ines ad affrettare i tempi del ritorno del padre a casa. Quando Winfried rientra in scena nella veste (parrucca memorabile e dentatura sconnessa finta) di Toni Erdmann, improbabile life coach del CEO della figlia, manager lui stesso e addirittura, all'occorrenza, ambasciatore di Germania in Romania, la vicenda prende pieghe assolutamente inattese e, in più di un'occasione spassose. Già, perché, fatto quasi inaudito, Toni Erdmann di Maren Ade è un film che, pur battendo bandiera tedesca (si badi bene, non austriaca), fa ridere. E fa anche piangere. Una commedia appunto.
«Certo, lo si poteva fare senza prendersi tutto quel tempo». Ebbene, la differenza fra Toni Erdmann e una commedia con Jack Nicholson o Bob de Niro sta proprio lì, nella scelta di quel tempo. O meglio: si articola per via di una presa di distanza dal modello classico, innanzitutto dalla forma-durata; perché, sì, dai tempi del cinema classico la commedia ha degli standard di durata, 80/100' che sono considerati uno degli elementi, lo stampo, in base al quale il prodotto avrà efficacia, innanzitutto sul pubblico. Il fatto che il film di Maren Ade esondi da quello stampo, ne adatti uno personale, con una durata importante (162'), che tuttalpiù si è disposti a riconoscere di diritto al dramma o al thriller politico, ha spiazzato, quando non infastidito una parte di platea critica cannense. Ma bisogna riconoscere che il tempo, la durata, in questo film (non sto ovviamente dicendo che si tratti di un caso isolato) hanno un'importanza tematica oltre che estrinseca.
Quello che Winfried vuole passare con Ines è del quality time, anche se tutto sembra rovinarsi per una grattugia di design e per una sveglia (eh sì) non suonata. E, quando il corpulento padre rientra in scena dei panni di Toni, la qualità di quel tempo, non sottoposta alla chirurgia di un montaggio classico, va a investire anche lo spettatore, il suo bagaglio emozionale. Benché non sia semplicissimo o comunque scontato empatizzare e arrivare a identificarsi con la Ines-neoyuppie, non tarda ad attivarsi il meccanismo empatico nei confronti della Ines-figlia: in questo meccanismo, al di là delle gag esilaranti, la durata accresce il progressivo senso di imbarazzo, quando non vergogna, per il debordante genitore, a corrente alternata con il disagio per averlo provato, quell'imbarazzo. Un imbarazzo che prima o poi, nella carriera di figlio, chiunque ha vissuto, anche se molti saranno pronti a negarlo. Ma la durata del film serve anche a fornire a Ines, e allo spettatore, il tempo per affinare gli strumenti, per affrontare, esorcizzare quell'imbarazzo, vincere la vergogna, le ragioni estrinseche di quel sentimento, per comporre la lacerazione.
Paradigmatica, e già da antologia, la scena dell'irrituale nackt-party. E pertiene, d'altra parte, a rituali ancestrali il costume con cui Toni arriva a quel party, una pelliccia integrale, di pelli di capra, della tradizione carnevalesca bulgara: una "montura" fuori scala, bigger than life, che di certo non agevola l'ingresso negli appartamenti alveolari moderni. E, in fondo, Erdmann può essere tradotto, spannometricamente, "uomo della terra", definizione che si attaglia perfettamente alla "creatura".
La Bucarest di Toni Erdmann è, tra l'altro, una città di soli quartieri alti; una città che, come la protagonista del film, ha tematizzato la vergogna, eretto steccati: dalla finestra dell'ufficio, Ines vede, igienicamente isolate dalla città moderna, alcune residuali baracche. In una baracca, accanto all'impianto dove Ines e Toni fanno il sopralluogo con l'obiettivo di tagliare il personale, avviene uno dei pochi, gratuiti, gesti di gentilezza del film. Un film che è un invito ad affrontare la vita coi piedi per terra, come Ines, scalza nel momento di riconciliazione con Winifred; un invito a recuperare la propria umanità, anche alla luce dei ricordi, almeno finché la memoria regge. E, nel caso papà non tornasse, con la macchina fotografica, per fermare quella memoria, c'è la macchina da presa, lì, a fissare, in primo piano, un'attesa dove non tutto è decifrabile, ma nella giusta durata.
Una figlia che ha perso il senso dell'umorismo e un padre che fa di tutto per farle tornare il sorriso.