I supereroi sono le divinità dei nostri tempi e l’epica è l’unica via per poterne cantare le gesta. A partire dall’incipit di Man of Steel fino all’epilogo del director’s cut di Justice League, Zack Snyder non si è mosso di un millimetro rispetto a quest’idea di fondo. Lo ha fatto con una coerenza narrativa e stilistica talmente esagerata da risultare al contempo commovente e irritante. D’altronde il cinema di Snyder è sempre stato eccessivo, frastornante e più grande della vita. Un cinema che, più che estremo, verrebbe da definire estremista. Da tutto o niente.
Nel caso dello Snyder’s Cut di Justice League il nome del regista sulla locandina sovrasta per dimensioni il titolo del film stesso. È quindi senza dubbio fuori luogo meravigliarsi della durata di 4 ore, della quantità di slow motion e di sovrabbondanza visiva. Ma in fin dei conti non poteva essere altrimenti. Perché quest’ultimo capitolo della trilogia dedicata a Superman - L'uomo d'acciaio - Man of Steel (2013), Batman v Superman: Dawn of Justice (2016) e Zack Snyder's Justice League (2021) - deve suggellare l’importanza per l’umanità di avere qualcosa in cui credere, deve raccontare l’affermarsi di una divinità che è simbolo di speranza.
“Darai agli abitanti della Terra un'ideale per cui battersi, si affretteranno a seguirti, vacilleranno, cadranno ma col tempo si uniranno a te nella luce! Col tempo li aiuterai a compiere meraviglie”. Il viaggio cinematografico messo in piedi da Snyder vuole solo confermare le parole con cui il padre di Superman spedisce il figlio sulla terra. Dev’essere quindi, ancora una volta, un cinema all’altezza delle divinità che racconta. Non a caso questo Snyder’s Cut riduce al minimo la presenza di figure umane - progressivamente diminuite dal primo al terzo capitolo della trilogia - quasi a voler sottolineare in ogni modo quanto la mitologia degli eroi sia una narrazione in grado di coinvolgere solo le divinità. Anche il formato dell’immagine, che in questo caso è un atipico 4:3, viene scelto per mettere in risalto la statura delle figure che si muovono sullo schermo, per utilizzare la monumentalità dei corpi degli eroi così da riempire completamente le inquadrature e per evitare che l’orizzonte sminuisca l’importanza di ogni elemento in scena. L’esperienza di visione proposta da Snyder priva così lo spettatore di ogni appiglio emotivo possibile e di ogni possibilità di immedesimazione con i protagonisti; è piuttosto un invito a lasciarsi sopraffare dall’imponenza delle immagini e dall’ambizione delle coreografie della macchina da presa.
Il cinecomic secondo Zack Snyder dev’essere quindi un’opera imponente che racconta gesta epiche e che per essere apprezzata presuppone un’ammirazione che deve assomigliare di molto ad una fede. Nel realizzare questo si concede il lusso di prendersi il tempo necessario, per dare il giusto peso ad ogni gesto, ad ogni azione e ad ogni avvenimento. Ma soprattutto, per lavorare sull’importanza di un’assenza che, con il passare dei minuti, diventa l’ideale per cui vale la pena combattere. Sebbene infatti Justice League sia il terzo capitolo di una trilogia su Superman, il minutaggio concesso all’eroe di Kripton è ridotto all’osso. Eppure è l’idea che possa esserci, che ad un certo punto possa intervenire, diventa il motore di ogni azione del resto della squadra di eroi. La Speranza rappresentata dalla S che porta sul petto è l’atto di fede che il regista chiede di fare ai propri protagonisti e ai propri spettatori. Senza di essa tutto crollerebbe, diventando inutilmente ridicolo, eccessivo e oltremodo pomposo. Ed è sicuramente interessante constatare come in un’opera in cui tutto è così marcatamente evidente, accentuato e volutamente esagerato, ciò che tiene insieme ogni cosa, sia da un punto di vista narrativo che di esperienza di visione, sia qualcosa che in realtà si vede per pochissimo o addirittura non si vede mai.
La trilogia è quindi costruita per trascendere progressivamente dal personaggio di Superman e lasciare spazio all’idea che vuole trasmettere da un punto di vista simbolico. E ogni elemento di quest’ultimo capitolo, dalle immagini ai dialoghi, dalla colonna sonora ai movimenti di macchina è cucito addosso a quest’idea. Tant’è che il film stesso vorrebbe essere quell’idea. Eppure, nel delineare il percorso narrativo che compie il personaggio nell’arco dei tre film, Snyder ricalca in maniera piuttosto evidente la storia di Cristo, conferendo quindi alla propria divinità un lato assolutamente umano. Come nella trasposizione cinematografica di Watchmen, in cui il Dottor Manhattan trovava nel miracolo di una vita terreste lo scopo del proprio ruolo tra i mortali sulla terra, così anche Superman trova il senso delle proprie gesta nell’amore che prova per Lois Lane. Nel raccontare questo passaggio, Snyder non riesce però a scendere a compromessi: la sua regia mantiene sempre e solo un’ottica “divina”, tralasciando completamente il risvolto umano della parabola del proprio dio. Il che non è sicuramente una cosa di poco conto, poiché manca completamente l’empatia per quello che dovrebbe essere un punto di svolta cruciale per l’intero arco narrativo. Forse però è ancora solo una conferma che quello di Snyder è un cinema da accettare senza compromessi. Un cinema estremista, da tutto o niente.
Bruce Wayne è determinato ad assicurarsi che il sacrificio compiuto da Superman non sia stato fatto invano. Con una nuova minaccia in arrivo dalle proporzioni catastrofiche, Batman chiede l’aiuto di Wonder Woman per reclutare una squadra di metaumani. Ognuno di loro, però, si trova alle prese con i demoni del passato, che dovranno riuscire ad affrontare per unire le forze e formare una squadra di eroi senza precedenti, anche se potrebbe essere troppo tardi.