Edito nel 2017, The Age of Netflix è uno studio collettaneo particolarmente utile per chi voglia cogliere sul nascere certe dinamiche essenziali dell’era streaming; al tempo la grande N rossa si affermava in modo pressoché unico sul mercato internazionale della tv on demand, ma anche se oggi abbondano i competitor e l’orizzonte mediale appare ben più complesso alcune strategie commerciali e produttive si mantengono coerenti. In particolare colpisce il saggio di Elia Marita Cornelio-Marì dedicato all’espansione del servizio Netflix in America Latina, momento in cui il gigante di Los Gatos ha inaugurato le pratiche di geolocalizzazione che sono oggi alla base del suo intrattenimento globalizzato.
Infatti, secondo il modello formalizzato dalla saggista, le media companies globali sono industrie glocal che per sopravvivere e crescere si nutrono di mercati nazionali interconnessi da una rete internazionale, un processo di acquisizione progressiva che si articola in ogni paese raggiunto dal servizio secondo tre passaggi, via via più radicati nella cultura locale della data regione: 1) traduzione del contenuto offerto tramite doppiaggio o sottotitolazione, 2) personalizzazione nazionale della library, 3) creazione di contenuti originali.
Venendo a noi, per una riuscita virtuosa del processo di geolocalizzazione è fondamentale che ingrani il terzo passaggio, quello dei cosiddetti Netflix originals, risorse strategiche dal duplice scopo: radicare il servizio negli usi e costumi del nuovo paese interessato (facilitando la conversione della comunità nazionale in nuovi abbonati) e da lì sfruttare la declinazione locale di generi e storie per arricchire la library globale di contenuti dal sapore esotico comunque familiari al pubblico internazionale.
Del resto bisogna tenere presente che Netflix è una pura media company, il cui modello di business cioè non è basato su acquisti online (Prime Video), hardware (Apple Tv) o merchandising (Disney+), né parte di una più ampia conglomerata multimediale (HBO Max, proprietà dell’azienda telefonica AT&T); priva per giunta di pubblicità, Netflix vive unicamente grazie agli abbonati. Di conseguenza è vitale per l’azienda californiana mantenere un costante tasso di crescita internazionale, il cui combustibile sono per l’appunto contenuti originali di natura locale (la cui importanza va inoltre ricalibrata alla luce del fatto che oggi ogni compagnia proprietaria dotata di piattaforma gestisce da sé i propri contenuti, con il conseguente taglio delle licenze di distribuzione).
Date queste considerazioni, appare evidente come ogni Netflix original sia parte di un meccanismo oscillatorio il cui spettro ha come estremi il mercato internazionale da una parte e la cultura locale dall’altra, la quale appare prima come un qualcosa verso cui approssimarsi e poi un elemento identitario da assorbire e standardizzare affinché sia vendibile e comprensibile all’estero. In particolare possiamo identificare tre direttive: contenuti dall’appeal evidentemente internazionale, pensati fin da subito in ottica glocal per sfruttare le caratteristiche locali al fine di imporsi dentro e fuori il paese d’origine (è stato il caso eclatante di Narcos e Dark); contenuti ibridi per un pubblico locale ma realizzati con standard tecnico-produttivi tali da renderli comunque competitivi sul piano internazionale (ad esempio la coreana Kingdom); contenuti esclusivamente locali, poco o nulla pubblicizzati al di fuori del proprio paese d’origine e pensati soprattutto per comunità dall’economia emergente e forte pubblico autoctono (come l’India).
Al secondo dei tre approcci possiamo quindi ricondurre la miniserie turca Ethos, il cui titolo originale, Bir başkadır, letteralmente “tutta un’altra cosa”, è alquanto esplicito nell’indicare come interlocutore privilegiato il pubblico interno turco. La Turchia infatti è tra i maggiori produttori mondiali di serie tv, ma come molti aspetti della sua cultura nazionale (specie sotto Erdogan) si tratta di un’industria incentrata sul mero intrattenimento e sulla riproduzione di immaginari rassicuranti, familiari, semplificati (non a caso pronti a spopolare su reti generaliste straniere come le nostre…).
Ecco, rispetto a tutto questo Ethos cerca di essere qualcosa di diverso, e lo fa mettendo in scena un mosaico di storie e personaggi accomunati da un processo di terapia e da un più generale bisogno di confrontarsi in modo decisivo e libero con il reale, al fine di superare un trauma. Il tutto attraverso una forma estetica ricercata, dilatata, in cui i lunghi primi piani sono una soluzione certo tarata per la visione su piccolo e piccolissimo schermo (e quindi benvoluta e ricercata dai produttori Netflix) ma anche uno strumento potente per creare connessioni profonde tra i personaggi e lo spettatore. E in questo Ethos dimostra di saper parlare non solo al proprio pubblico locale ma anche a un’ampia sfera internazionale, specie europea, che ha premiato infatti la serie con un forte successo.
Uno degli elementi più convincenti (ed efficaci dal punto di vista produttivo) è proprio la capacità che la serie ha di dialogare con lo spettatore locale – attraverso soluzioni compositive prima che tematiche, come le musiche tradizionali e i ricorrenti inserti d’archivio di fine episodio – sviluppando una narrazione fatta di contrasti universali, certo ritratti nella loro specificità turca ma capaci comunque di trovare un dialogo con sguardi al di fuori del paese d’origine. Si pensi in particolare alle dicotomie attorno a cui ruota gran parte delle storie – città/campagna, religione/laicità, oppressione e vacuità maschile / insoddisfazione femminile per la propria condizione –, coppie tematiche familiari, che sentiamo vicine e comunque ci raccontano una Turchia lontana dalla retorica presidenziale e massmediatica, più comprensibile e simile a noi, frammentata ma consapevole delle proprie contraddizioni.
È una rappresentazione ben diversa da quella offerta dalle serie locali turche, e Berkun Oya, il creatore e regista di Ethos, ci tiene a ribadirlo più volte, mettendo spesso in scena il rapporto di intrattenimento superficiale indotto dalla televisione nei personaggi raccontati, e soprattutto la frustrazione di chi quel mondo lo abita, come l’attrice di soap Melisa, personaggio evidentemente strumentale nato unicamente per rimarcare questo contrasto. Ed è per questo che, nonostante la sua attenzione specifica alla materia psicanalitica e all’importanza di esprimere le proprie emozioni represse, Ethos diventa spesso essa stessa qualcosa di simile a una soap opera, per lo meno per come si dispiegano i vari intrecci e si susseguono morti e coincidenze artificiose, posticce, tutte atte a intirizzire la fiamma del dramma.
Vuoi per la grana grossa di alcuni elementi di partenza, vuoi per l’intenzionalità evidente e programmatica di creare qualcosa che contrasti con la serialità locale (ma senza distaccarsene tanto da estraniare il pubblico turco), Ethos è in definitiva un perfetto prodotto della geolocalizzazione di stampo Netflix, una serialità intelligente in cui il buon livello produttivo va di pari passo con una marca estetica precisa, riconoscibile, all’interno della quale si muovono personaggi che non sempre trovano la quadra ma comunque manifestano vita ed emozioni, contrasti e bisogno d’amore, d’espressione, dell’altro.
La Turchia di Ethos è un paese vissuto da persone diverse, con valori diversi, accomunate dalla frustrazione suscitata da un contesto culturale che offre ben pochi strumenti per vivere appieno i propri pensieri e desideri. Ecco, a mancare nella narrazione è forse proprio una traiettoria di fuga forte per questi sogni, un segno tracciato oltre l’orizzonte che possa indicare un percorso di maggior libertà. Ma la direzione è evidentemente quella giusta, e al vaglio del bilanciamento di necessità locali e internazionali Ethos esce sicuramente vincitrice.
A Istanbul alcune persone trascendono le barriere socioculturali e stabiliscono legami mentre s'intrecciano le loro paure e i loro desideri.