Due sono i rischi interpretativi nell’approcciarsi a Supersex, “una serie liberamente ispirata alla vita di Rocco Siffredi”. Il primo è di cercare la verosimiglianza, quand’anche non la verità biografica. Rocco (lo chiameremo così non per suggerire una prossimità, ma per tenerne insieme le due anime del cognome, quello originale, Tano, e quello professionale, Siffredi) ha ampiamente discorsivizzato la sua approvazione al trattamento degli eventi, e di certo non si può immaginarne ingenuità nella gestione del self storytelling. Da sempre, dentro e fuori il set, non fa altro che gestire il racconto della sua identità. Perché quella particolare forma di narrazione audiovisiva che è il porno costringe i suoi interpreti, più di qualunque altra esperienza di immersione recitativa, a una totale subordinazione del character all’attore, fino alla coalescenza (i “personaggi” del cinema porno non hanno nome, semmai nickname, perché sono puri attanti), e soprattutto a partire dalla sua “svolta produttiva” (che nella serie è appena accennata, lasciata al fuori campo della prosecuzione, ma che rappresenta lo “stato” del presente per Rocco), in scena, dietro la macchina da presa, in produzione, alle premiazioni e in promozione, c’è solo Rocco (Siffredi). Fuori dal regime pornografico si è lasciato raccontare, prima di tutto da Catherine Breillat (Romance e Pornocrazia), ma sarebbe ingiusto dimenticare l’Amorestremo di Maria Martinelli e la sua presenza fantasmatica in Tutti i rumori del mare di Federico Brugia, e soprattutto il doc Rocco, di Thierry Demaizière e Alban Teurlai, ad oggi il tentativo più coraggioso e riuscito di far fare all’uomo pace con la propria icona. E ancora la partecipazione all’Isola dei Famosi (vero set di auto-narrazione, occasione dell’ennesimo addio spettacolare al porno, poi ritrattato, come sempre), e la docu-reality famigliare/professionale Casa Siffredi, unico vero esempio europeo di adattamento di Family Business, prodotto di Showtime che ha per protagonista Adam Glasser/Seymore Butts (il re del gonzo).
Dunque, di fronte a tutta questa consapevolezza narrativa, si può accettare che un uomo che ha passato tutta la vita a mostrare il cazzo a milioni di persone (soprattutto quando lo metteva nel culo a qualcuno), voglia preservare una certa autoindulgenza quando si mette a nudo il suo cuore. E di cazzo bisogna scrivere, anche a rischio di una certa urticante ridondanza, perché cazzo-culo-cuore è proprio il trinomio linguistico e semantico su cui è costruita tutta la serie. Esemplare la costruzione del personaggio di Lucia (Jasmine Trinca), totalmente di finzione perché pensato, e discorsivizzato, come la silloge di tutte le donne incontrate da Rocco (economia narrativa, più che simbolica), che dà la misura per mettere in quadro tutti gli scivolamenti iperbolici del fratello Tommaso (Adriano Giannini), della madre Carmela (Tania Garribba), e insieme di tutti i ridimensionamenti speculari.
Il secondo rischio è di voler cercare una rappresentazione (teorica, sociologica, indiziaria) della pornografia, come sistema economico, come dialettica sociale, come forma di potere, come routine produttiva o attoriale. Semplicemente non c’è. Supersex non è The Deuce, né Boogie Nights o Hardcore o Pleasure. Peggio che mai indulgere in una interpretazione psicoanalitica. Non che manchino i richiami praticamente irresistibili, a partire dalla frase con cui Rocco chiosa il suo primo rapporto sessuale all’interno di una relazione amorosa (“quando Sylvie disse ti amo non provai nulla, perché il desiderio che avevo in corpo voleva solo se stesso”), e che da solo basterebbe a costruire geometrie lacaniane da orgasmo. Piuttosto la risemantizzazione sintomatica degli eventi, e soprattutto dei legami, è da considerarsi un accidente: se per tutta la vita ha messo il cazzo come vettore di relazione è un attimo che da lì (come per il pene) si passi al fallo, e sia tutta una teoria di invidie, castrazioni, forclusioni, sostituzioni e ogni altro ben di Lacan.
Ultima avvertenza, non cercare una riproduzione dettagliata, e documentaristica, della pornografia italiana, come serbatoio di personaggi, occorrenze, sintomi sociali, perché a Rocco manca inesorabilmente la distanza per consentire al suo bagaglio biografico un po’ di prospettiva. Del tutto scontato che la grandezza (o la piccineria) dei compagni di viaggio, storici, venga ridimensionata dall’esperienza (forte o piccina): naturale che Riccardo Schicchi sia poco più di una macchietta isterico-fantasiosa, che (il grandissimo) Gabriel Pontello da mito personale si trasformi in vecchio bilioso, che (il grandissimo) John Stagliano sia un americano stronzo, che Moana sia una dea, triste e misteriosa, e che il personaggio più doloroso, affascinante, tridimensionale, sia Franco Caracciolo.
E allora, si dirà, che cosa rimane in Supersex?
Moltissimo a dire il vero. Prima di tutto il Bildungsroman di un’icona, anzi, proprio un Viaggio dell’Eroe fantastico, anti-realista, una fiaba, un po’ nera e un po’ (a luce) rossa. In cui un bambino ottiene il suo superpotere quando una banda di zingari gli allunga il cazzo, che diventa Oggetto Magico, come è magica la rappresentazione della femminilità di Lucia, sospesa tra Tinto Brass e il fumetto. Il suo eroe non è Pontello, ma Supersex, il porno-extraterrestre dei fotoromanzi in bianco e nero, che urlava “Ifix tcen tcen!” durante l’eiaculazione. Non il coetaneo Lando (entrambi sono finiti in brani di Elio e le Storie Tese), disegnato con le fattezze di Adriano Celentano, scopatore umoristico e autoironico, fin troppo terreno, ma Supersex, le cui pagine, rubate, spiate, studiate, sporcate, strappate e ricomposte, conservate, tramandate, diventeranno feticcio.
La recitazione stranita e straniante di Marco Fiore (Rocco a 9 anni), un po’ Alex Bisconti di La mafia uccide solo d’estate e un po’ Salvatore di Nuovo Cinema Paradiso (sono sempre storie di incontri con l’alterità femminea e con la morte), fa da prodromo a quella da teen idol di Saul Nanni, e poi a quella mimetica di Alessandro Borghi, con il ciuffo, l’occhio strabuzzato, il sorriso e la risatina, il solco tra gli incisivi, che è un ulteriore contrappunto anti-realistico (un Rocco più Rocco dell’originale, costruito sui tic più che sulla somiglianza). Il Rocco di Supersex è una creatura mitologica, un porno-extraterrestre, un super-umano, di cui si racconta il dilemma di essere creatura (povera creatura, Poor Things) più che uomo, identità scissa in cui devono convivere il cazzo e il resto del corpo. E il cazzo è sempre lì, in mezzo, tra lui e tutti gli altri, o dentro, tra lui e tutte le altre. In totale disinteresse per qualsiasi verosimiglianza.
Per condurre questo racconto fantastico in scrittura (Francesca Manieri) e in regia (Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni), si ricorre a tutti gli stilemi di genere. Il noir, prima di tutto, con un riferimento costante al Borsalino di Jacques Deray, che a Rocco non dà solo il nome (da Tano viene battezzato in Siffredi come omaggio al Roch Siffredi di Alain Delon), ma anche la misura dei rapporti, ricostruendo la relazione parigina tra Tommaso, Lucia e Rocco sulla falsariga dei loro alter ego: il François Capella di Jean-Paul Belmondo (da cui Tommaso eredita le frequentazione criminali e marsigliesi), la Lola di Catherine Rouvel (che sceglie Tommaso, pur amando Rocco) e, appunto il Roch di Delon.
E poi il melodramma. Tutto, in Supersex, è melodramma (e melodrammatico). I tagli di inquadratura, i movimenti di macchina, le riprese in campo lungo e lunghissimo, dall’alto, a segnare una differenza essenziale tra la grammatica del porno e quella della serialità che vuole farsi cinema. È proprio nel linguaggio visivo che la pornografia è, ancora una volta, totalmente espulsa.
Nulla è pornografico nell’immagine, perché l’atto è sempre fuori campo (paradigmatica la scena del toilet fuck, che di Siffredi è “marca autoriale” e che nella serie è oggetto scopico perturbante per Lucia, ma lasciato fuori dallo spettro dello spettatore), inquadrato secondo un punto di vista diverso da quello con cui è praticato nelle, limitatissime, sequenze “professionali”. Rocco scopa pochissimo sul set, ma lo fa continuamente, altrove: nei club di scambisti, nelle camere, in piedi, su un’isola. Non c’è niente di pornografico nell’immagine perché al centro c’è il melodramma come pornografia dei sentimenti.
Supersex è un melodramma mitologico, che celebra un nostro Eroe nazionale. E noi non possiamo far altro, indossato il vestito buono della pruderie, che alzarci e applaudire, come il padre e i fratelli alla consegna del primo Hot d’or.
La storia di Rocco Siffredi, dall'infanzia a Ortona ai primi passi nel mondo del porno fino alla consacrazione come star e icona mondiale.