Un colpo per uno, come a ping pong. Comincia uno a guardare un film. L'altro risponde, aggiunge, approfondisce e prosegue. Bruno Fornara comincia. Fabrizio Tassi risponde. E avanti così fino alla fine. Critica passeggiante. A spasso dentro un film.
P.S. Si consiglia di tenere il dvd sotto mano.
“Una storia vera” di David Lynch, del 1999, in originale è “The Straight Story”, che vale due: significa “Una storia dritta” e significa “La storia di Straight”. È ispirato a un fatto realmente accaduto. Alvin Straight, un contadino dell'Iowa, nel 1994, all'età di 73 anni, si mise in viaggio su un piccolo trattorino tosaerba per andare a trovare il fratello che aveva avuto un infarto. Per coprire le 240 miglia tra Laurens (Iowa) e Mount Zion (Wisconsin), Straight impiegò sei settimane alla velocità di 5 miglia all'ora. Lynch ha trasformato questa notizia di cronaca in un film che è una storia “straight”. Dritta nel senso di lineare. Dritta nel senso di giusta e nobile.
Richard Farnsworth, il protagonista, ha percorso una carriera da caratterista, è stato nominato all'Oscar come attore non protagonista per “Arriva un cavaliere libero e selvaggio” di Alan J. Pakula e come miglior attore protagonista per “Una storia vera” che è il suo ultimo film. Malato, si è ucciso pochi mesi dopo la fine delle riprese.
1. Bruno Fornara
All'inizio, quando scorrono i titoli di testa, c'è un cielo notturno con tante stelle. Lynch apre e chiude il film su questa immagine, la notte, il cielo, le stelle. Bisogna guardare con attenzione per accorgersi che la macchina da presa non è ferma. Avanza pianissimo nel cielo, affonda nell'oscurità, dritta, senza tentennamenti, accompagnata da un motivo musicale tenero e semplice di Angelo Badalamenti. Per accorgersi che la macchina da presa si muove, bisogna tenere d'occhio il bordo dell'inquadratura: si vedono le stelle avvicinarsi al bordo e sparire oltre. Il movimento è quasi impercettibile. Quando arriveremo alla fine del film e a questa stessa inquadratura noteremo una differenza. “Una storia vera” è apparentemente un film semplice, lineare, dritto. In realtà è intessuto di molti rimandi e rapporti, è un film a molti livelli, è un film di superficie – la superficie della terra americana, coltivata dagli uomini, la superficie percorsa da Alvin e dal suo tosaerba – ma è anche un film che si allarga in tante direzioni. Cercheremo di riconoscerle. Per adesso, fin da questa prima inquadratura notturna e celeste, tiriamo un filo che andrà a congiungersi all'ultima inquadratura, ugualmente notturna e celeste. Con una differenza che, quando arriveremo alla fine, faremo notare. Differenza importante.
Dal cielo alla terra. Una terra coltivata, campi di granturco in file ordinate, una grande mietitrebbia al lavoro, la macchina da presa vola sui campi e si ferma sopra un posto preciso sulla terra, Laurens, nell'Iowa, il nome sta scritto sull'alto serbatoio dell'acqua. Un posto come tanti, la strada principale assolata e deserta, i grandi silos, solo un pickup parcheggiato, una macchina agricola percorre la strada, passano dei cani, non si vede anima viva. Poi la macchina da presa scende, si abbassa su un prato, c'è una signora che prende il sole su una sdraio, ci sono due case in legno. Qui comincia la “straight story”, la dritta storia di Alvin: che Lynch pone tra cielo e terra. Una terra abitata e un cielo stellato. Lungo tutto il film Alvin si muoverà con lentezza tra terra e cielo.
2. Fabrizio Tassi
Eppure siamo dentro un film di David Lynch, quello delle Strade perdute e dei labirinti della mente.
In effetti quella strada semi-deserta sembra un po’ persa anche lei, in ombra per metà, sovrastata da silos giganteschi (li rivedremo tra poco), percorsa da cani randagi e da un lento trattore che ha un rimorchio tentacolare. Twin Peaks? La casa e il giardino (che appaiono in dissolvenza incrociata, inquadrati dall’alto) fanno invece pensare a Velluto blu.
La macchina da presa scende lentamente, accompagna fuori dall’inquadratura una certa Dorothy, e si inoltra nel verde, mentre la musica lascia il posto al rumore del vento tra gli alberi. Giriamo attorno alla casa, in piano sequenza, e approdiamo davanti a una finestra, ad attendere chissà quale mistero, brivido, orrore. Un tonfo (fuori campo, dentro la casa). Cosa è successo? Quando riappare la signora grassa che stava prendendo il sole, le sensazioni si confondono (sì, è proprio Lynch). Il sorriso si mescola all’attesa e al presentimento inquieto. Nero. Sequenza finita.
Un anziano signore immusonito (c’è anche un amico baffuto che lo aspetta) ci riporta coi piedi per terra. A quanto pare sta cercando Alvin Straight, detto così, nome e cognome. La signora non l’ha visto, anzi, neanche lo considera («Rose è uscita») e in effetti ha gli occhi chiusi da una maschera. Ma il vecchio scansa il primo piano ingombrante di Dorothy, arriva accanto alla casa del prologo, al rumore dei rami e del vento, e poi, finalmente, ci accompagna dentro (ci mostra il fuori).
Eccolo, Alvin Straight. L’eroe della storia, il protagonista del film, fa la sua apparizione sdraiato sul pavimento. Niente male come entrata. Alla faccia degli ingressi hollywoodiani, quelli in cui lei si gira all’improvviso e appare in tutti il suo splendore. Quelli in cui lui è sbirciato dal basso, in piena luce o in mezza penombra, e risalta in tutta la sua imponente, statuaria, perturbante grandezza.
Alvin, invece, è schiacciato per terra, nel buio. Prefigurazione della morte? Segno della vecchiaia e della malattia? Certo è che da laggiù il mondo appare in tutta un’altra prospettiva. «Sono qui Bud, attento a dove metti i piedi».
3. Bruno Fornara
Il film parte fermandosi. È appena cominciato e il protagonista è lì steso per terra e non ce la fa ad alzarsi. Ha intorno il vecchio Bud, vecchio come lui, e una signora in carne, che parlano a sproposito. La signora Dorothy si chiede quale sia il numero del 911, del pronto soccorso, lo sa il numero, lo dice e non si accorge di saperlo. Secondo Dorothy, Alvin ha avuto un colpo. Bud lo chiede direttamente a Alvin. La situazione, per certi versi, è comica. Torna anche la figlia Rose (Sissy Spacek), certo più giovane degli altri due, ma neppure lei in grado di fare qualcosa: balbetta (e non per essersi spaventata a vedere il padre sul pavimento, balbetta proprio), pensa che siano i due ad aver fatto qualcosa al padre. Finalmente Alvin si tira su sui gomiti, dice che ha solo bisogno di un aiuto per rimettersi in piedi. Stacco.
Una strada ampia, molte piante ai bordi, le case con un po' di prato di fronte, una macchina viene avanti piano, sopra ci sono Alvin, Rose e Bud che non è granché come autista: fa andare su di giri di parecchio il motore e la macchina si ferma a sobbalzoni. E quando Rose scende la portiera posteriore fa fatica a chiudersi. Insomma: tutto funziona malaccio in questo posto, tutti sono vecchi, uno di loro è caduto, chi lo aiuta lo fa come può. La lunga prima parte del film è posta sotto il segno della stasi, della difficoltà del muoversi, della fine vicina, della fatica. Della vecchiaia.
Laurens è un posto per vecchi e di vecchi che non possono aspettarsi altro che un lento spegnersi. Il film mostrerà che per uno di loro le cose non stanno così. Certo, non è facile: Alvin ci mette un quarto di film prima di riuscire a partire davvero. Ce la fa a partire al secondo tentativo, al minuto 34 sui 107 che dura il film (nel mio dvd). Gli ci vuole tempo per avviarsi.
Per adesso la figlia e il suo amico Bud lo portano in un prefabbricato dove c'è l'ambulatorio del dottore: anche qui le notizie non sono per niente buone. Alvin scende dalla macchina appoggiandosi al bastone, aiutato da Rose. Anche la portiera davanti scricchiola. Bud dice che torna al bar. Alvin guarda l'ambulatorio, non vuole andarci, lo dice e lo ripete, non vuole aver niente a che fare con dottori e cure, sa bene che per lui è finita o quasi. È Rose a costringerlo a entrare. E la sequenza dentro l'ambulatorio è fatta apposta per dirci che Alvin ha ragione: non c'è molto che si possa fare e Alvin non vuole farlo. Si comincia male: l'infermiera gli dice di spogliarsi e di mettersi un camice. Lui le risponde di mandargli il dottore e che non ha nessuna voglia di svestirsi. Alvin è un gran testardo (oltre a essere consapevole del suo pessimo stato di salute). Si guarda in giro, tutte quelle boccette, quegli strumenti e quelle medicine non fanno per lui.
4. Fabrizio Tassi
Rose parla delle sue casette per gli uccelli (siamo al minuto 9), mentre Alvin si ritrova nudo come un verme: "Niente operazione!". E' uno stacco brusco e deciso come questo vecchio testardo. Non sappiamo cosa gli ha detto il dottore, per la verità neanche ci interessa. Ciò che importa è che il nostre eroe (?!) non ne vuole sapere di farsi aiutare, accudire, restaurare. "Niente deambulatore!". E' vecchio, e allora? E' lì indifeso, smagrito, ammalato, ma ha un orgoglio grande così. "Niente esami!". Le conseguenze potrebbero essere assai gravi. Bisogna badare anche alla dieta e al fumo.
Stacco su un secondo bastone. Almeno questo lo ha accettato. Ma la macchina da presa si sposta sul suo sigaro e il dettaglio della mano che accende un fiammifero. E' proprio un bel tipo questo Alvin (a proposito di dieta, lo vedremo mordere salsicce lungo tutto il viaggio). Aspira, sfacciato. Ma si vede che qualcosa lo rode dentro. Eccola sua figlia Rose, con una nuova casetta per gli uccelli in mano. L'inquadratura si allarga per accoglierla. Ecco, forse, cosa preoccupa il vecchio: che fine farà Rose quando lui non ci sarà più? "Questa ha il tetto rosso, la prossima la faccio col tetto blu". "Mi pare una buona idea". In realtà il dialogo vero avviene in silenzio, nel non-detto, e nello stacco sul primo piano preoccupato di lei: "Cosa dice il dottore?". Anche lui torna in primissimo piano. Ora sono separati in due inquadrature diverse, a mentirsi sorridendo. "Dice che campo fino a cent'anni". Ma ci mette un'eternità ad alzarsi.
Stacco sul tagliaerbe che non parte. Il motore gira a vuoto. Tutto complotta contro Alvin, le macchine come la natura.
5. Bruno Fornara
Adesso sappiamo che Alvin ha il diabete, problemi agli occhi, alle anche, alle arterie, un principio di enfisema: e il rosso tagliaerba, marca Rehds, non vuole saperne di partire. Alvin lo prende a bastonate. È lì con Rose che sta pitturando di blu il tetto della casetta per gli uccelli. Rose – lo sapremo tra poco – ha un conto aperto, un dolore fisso e profondo legato alla sua casa e ai suoi "uccellini": per questo costruisce ripari per altri uccellini. Alvin guarda il cielo scuro: sta arrivando un temporale.
Il tempo che fa, il tempo meteorologico ha un posto importante nel film. Alvin e Rose guardano spesso il cielo. È il cielo il loro "spettacolo". Quando si è fatta notte, Alvin e Rose stanno seduti davanti a una finestra mentre fuori piove forte. I lampi sbiancano i loro volti. Alvin sorride, lo spettacolo gli piace. Lui e Rose adorano i temporali e i lampi. È qui, tra lampi e tuoni, che arriva la cesura nella narrazione. In un film, quando piove, è statisticamente molto probabile che arrivi una brutta notizia, che succeda qualcosa di spiacevole. Rose va a rispondere al telefono: è successo qualcosa a Lyle, il fratello di Alvin. Il volto di Alvin sembra rigato dalla pioggia: quando Rose dice al padre dell'infarto di Lyle, sulla parola stroke un lampo scoppia in faccia ad Alvin che resta immobile. E Lynch inquadra da fuori, un po' dall'alto, la casa di Alvin e di Rose: è blu sotto i lampi, è come una casettina per gli uccelli.
Esterno giorno. Alvin ha rimesso in moto il tagliaerba rosso. Rose sta telefonando mentre lui passa seduto sul tagliaerba oltre le finestre di casa. Rose dice al telefono che Alvin non ha fatto nessun commento sul fratello, sono tutti e due testardi, quello che è successo tra loro (cos'è successo tra loro?) è accaduto anni prima, il 7 luglio del 1988, lei se lo ricorda bene. Alvin ripassa con il Rehds, si ferma nella cornice della finestra, si accende il sigaro. E andiamo in un altro mondo.
In lenta dissolvenza appare un innaffiatore, con il piccolo getto d'acqua sul prato. È sera. L'inquadratura è vuota. Solo il prato, l'innaffiatore e il dolce e malinconico motivo musicale. Momento lynchiano, indecidibile: da destra entra, sul prato, lentamente, un pallone bianco. Rose appoggiata alla finestra guarda fuori. Guarda nel vuoto. Guarda dentro di sé? Siamo a 15 minuti dall'inizio. Il tempo e la storia hanno un sussulto interiore. Rose guarda versa la sua destra, ancora più a destra. Chissà quante volte l'ha fatto di guardare da quella parte: si aspetta che arrivi qualcuno. E dalla destra entra nell'inquadratura un bambino, viene a prendersi la sua palla e se ne va. Rose è tutta presa dal suo ricordo: arriva Alvin, silhouette nel buio, e dice una di quelle frasi che segnano profondamente il film, che dicono una cosa e ne suggeriscono altre. Dice che vuole rimettersi on the road, deve andare da Lyle.
Ecco, qui il film trova la sua svolta, la prima di tante altre: Alvin deve rimettersi in viaggio e l'espressione è doppia. Deve viaggiare verso il fratello, ma deve anche go back on the road, deve ritornare sulla sua strada, deve rifare la strada della sua vita, deve ritrovarla. Andando verso Lyle, Alvin vuole ritrovare se stesso, vuole rifare il viaggio della sua esistenza: e il film sdoppia il suo percorso. C'è un obiettivo che è quello di andare a trovare un fratello (e riconciliarsi con lui) e c'è un secondo obiettivo, altrettanto fondamentale, quello di ripercorrere la propria vita. Un viaggio in avanti e un viaggio all'indietro. Alvin è vecchio e malato, ma adesso ha da fare un sacco di cose e due viaggi.
6. Fabrizio Tassi
Alvin deve andare, anche se non sa ancora come. La sua figura scura esce dietro una parete al centro dell'inquadratura, camminando verso la luce (siamo al 16'50"), e la sua uscita è resa ancora più lenta, solenne, dall'ombra che si trascina dietro, sulla parete gialla.
Uno stacco interrompe bruscamente la malinconia struggente di quella sequenza notturna, facendoci piombare dentro una commedia. Esterno giorno. Rose elenca tutti i motivi per cui Alvin non può partire: ci vede poco, non ha la patente, Lyle vive troppo lontano (317 miglia) e c'è quel problema alle anche, ogni volta che Alvin si alza fa "ooooh, uuuuh, aaah". Lui sorride. Mentre parlano, Rose e Alvin lavorano in giardino, separati in due diverse inquadrature (lei ancora non si rende conto che sta lavorando per la sua folle avventura).
La figlia va avanti e indietro, proseguendo il suo monologo molto sensato, elencando tutto ciò che il "mondo" può pensare di un'impresa del genere. Lo sa che Alvin non la ascolterà, che lui se ne frega del buonsenso (lui è il nostro eroe!), ma ci prova lo stesso: "Hai 73 anni, sei nato quando Calvin Coolidge era Presidente degli Stati Uniti". Eh sì, in effetti è proprio vecchio, chi diavolo si ricorda di Coolidge?
La risposta di Alvin, allegra e ovvia (di quell'ovvietà concreta, quella realtà evidente, di cui è fatto il film), non ammette repliche: "Rose cara non sono ancora morto". Che è un po' come dire: sì, certo, potrei starmene qui a sopravvivere tranquillo, nascondendomi dalla vita, ma io voglio vivere davvero, voglio completare il mio viaggio. Lo stacco sul totale li rimette insieme dentro la stessa inquadratura, rivelando il misterioso contesto: "Che cosa stiamo costruendo papà"?.
Stacco sui viveri. "Facciamo una festa?". Rose e la cassiera del supermercato non si capiscono. Salsicce e paté di fegato in realtà servono al viaggio di papà, che ormai è una certezza. Partirà per il Wisconsin ("Lì sì che sanno fare le feste!"). Ed eccolo, Alvin, dopo un altro stacco netto, mentre lavora alla sua impresa. Evidentemente ha deciso in che modo andrà da suo fratello. Lavora con la fiamma ossidrica, e la macchina da presa, spostandosi appena, ci mostra anche un ruota rossa, che poi vedremo girare per tutto il film.
Mancano solo gli ultimi acquisti, anche questi da fare con i modi e i tempi di una commedia country. A partire dal totale di un negozio, con i quattro amici di Alvin distribuiti dentro l'inquadratura, che lo guardano perplessi. "Senti Alvin, io non so dove vuoi arrivare, hai riempito tre taniche da 20 litri. 60 litri di gasolio!". Evidentemente vuole andare lontano.
7. Bruno Fornara
Faccio un saltino indietro. Quel tono da commedia che ha la scena, descritta da Fabrizio nel ping pong n. 6, di Alvin che prepara il suo rimorchio e Rose che gli ricorda tutti i suoi mali, è gustosamente sottolineato dalla corrispondenza tra il suono cigolante che fa il seghetto mentre Alvin taglia una sbarra di ferro e la litania balbettante di Rose che elenca le malattie del padre. Sembra che Alvin muova intenzionalmente e umoristicamente avanti e indietro il seghetto al ritmo della filastrocca di Rose. Alla fine, Alvin ride quando Rose imita lui che si tira dritta la schiena lamentandosi. Tra i due, sottolinea Lynch, corre un'intesa consolidata, c'è una solidarietà fresca, naturale. E Lynch si diverte ancora quando mostra le due facce disgustate, con una brutta smorfia, di Rose e della cassiera che odiano il paté di fegato.
Vado avanti. La sequenza nel negozio di ferramenta è piuttosto bizzarra. C'è Rose, che non interviene mai e si vede solo nella prima inquadratura. Ci sono quattro altre persone, tutti vecchietti ovviamente, che sospettano che Alvin abbia in mente qualcosa. Uno di loro, Sig, baffoni spioventi e aria da inquisitore di paese, chiede perché tutto quel gasolio. Alvin lo sistema con un “son of a gun” e subito passa ad altro.
Vuole comprare una pinza di quelle che servono a prendere qualcosa che sta su un ripiano in alto o a tirare su qualcosa senza abbassarsi (sta pensando alla sua schiena). Il padrone del negozio fa finta di non capire. Alvin gli indica il “grabber”, la pinza afferra-oggetti. «It's my grabber, Alvin» dice il negoziante con voce lamentosa, guarda i due grabber dietro al banco, dice che gli servono tutti e due. Alvin offre cinque dollari. Il commerciante dice che sono difficili da trovare, gli ci vorranno due mesi per far arrivare un'altra pinza, sta sudando, alza il prezzo a dieci dollari.
Perché tutta questa trattativa su un'asta afferra-oggetti? Perché a Lynch serve per arrivare alla battuta conclusiva. Alvin accetta i dieci dollari, il negoziante prende la pinza, se ne distacca con dispiacere, Alvin la prende e la prova. Quel ficcanaso di Gis chiede: ma a cosa serve ad Alvin quel “grabber”? E Alvin, bravissimo, laconico, perfetto: «Grabbin'». Ecco dove Lynch – e Alvin! - vogliono arrivare: a dire una cosa semplicissima, che un “grabber”, un utensile che serve per afferrare, serve appunto per afferrare.
Mi è sempre venuto da pensare che il percorso lungo tutta questa scena, quasi uno sketch, sia stato costruito da Lynch con uno scopo preciso: quello di fare di Alvin un personaggio, un uomo, del tutto pragmatico (un afferra-oggetti serve per afferrare oggetti) e quello di prendere un po' in giro se stesso. Lynch prende in giro Lynch. Lui che, nei suoi film ha sempre sciolto il troppo rigido reale nell'acido della indecidibilità, qui si arrende alla sana, semplice chiarezza del linguaggio e dell'esperienza. Alvin avrà bisogno di afferrare oggetti, quindi si compra un grabber. Le cose servono per fare ciò per cui sono state pensate, fatte e usate da sempre. Ci saranno poi nel film delle scene lynchiane (la donna che investe i cervi...), ma qui è il mondo delle cose come sono ad avere il sopravvento. Lynch si inchina e rende omaggio al suo Alvin. Realista. Effettuale.
Siamo arrivati a 21 minuti e 28 secondi.
8. Fabrizio Tassi
E adesso che diavolo fa? Dopo la scenetta del grabber (al minuto 21'30"), ritroviamo Alvin intento a lavorare (ancora!): lubrifica un giunto, sotto lo sguardo interrogativo e silenzioso della figlia. E' lei (è la nostra curiosità) a unire le due immagini che Lynch si diverte a tenere separate, per amplificare la sorpresa in arrivo. Quando si allarga l'inquadratura, finalmente capiamo: quel matto di Alvin ha deciso di unire un tosaerbe a un rimorchio troppo pesante, troppo grande, troppo pericoloso da trascinare per le strade d'America. La commedia sta per cedere il posto all'epica, all'avventura (umanista).
Ma intanto lo stacco ci scaraventa dentro un rumore cupo e l'apparizione di un mostro nella notte. Anzi no, non è un mostro, sono solamente dei silos. Però visti così, dal basso, mettono addosso una strana inquietudine. Ha ragione Bruno Fornara: "Una storia vera" è un film in cui le cose sono come appaiono (il mondo non è il simbolo di qualcos'altro, la vita non è metafora), e Lynch si diverte anche un po' a prendersi in giro. Ma è pure vero che Lynch è sempre Lynch, e anche senza apparizioni spaventose in cui incarnare le paure, anche senza i consueti labirinti visivi in cui liberare i fantasmi della mente, di certo non mancano i terrori, i dolori, le angosce, riportati alla loro realtà quotidiana, alla loro evidenza immediata.
Il controcampo dei silos è l'immagine pacifica di un vecchio e di sua figlia laggiù in fondo, quasi fossero inquadrati dal mostro-totem bonario che veglia su di loro. Il viso di lei è bellissimo, illuminato dalla luna. Alvin riporta le cose alla loro concretezza, come sempre: il rumore è quello del grano sollevato, non c'è nulla da temere. "E' tempo di mietitura", ribadisce lei, che prova a riportare la conversazione sul tosaerbe, il rimorchio, quel viaggio assurdo. "Rose, devo andare da Lyle", dice lui, semplicemente, indiscutibilmente. Anche il suo viso è bellissimo in quella luce. Stanco, malinconico, ma ispirato: "Credo che tu possa capire". Certo che capisce. Lo capiamo tutti.
Eccolo Alvin, che guarda in su e gli brillano gli occhi: "Guarda il cielo, Rose". E noi siamo lì, commossi, per la luce negli occhi di lei, per l'espressione di lui (l'affetto, la gioia semplice), mentre osserva le stelle che luccicano dentro lo sguardo di Rose. Cos'è il cielo? La parte migliore di noi? Le nostre aspirazioni? Gli ideali, le emozioni quelle vere, le cose che contano, la bellezza, l'al di là, l'altrove, il di dentro squadernato là fuori?
E se il cielo stellato fosse semplicemente un cielo stellato? Non è già tanto così?
Il buio del cielo si accende in un'alba. E' sempre un bel giorno per ricominciare a vivere.
9. Bruno Fornara
Così adesso, al minuto 24, sotto il cielo stellato e davanti a quell'alba rossa e gialla, abbiamo già tre frasi che aprono il film ad altri sentieri. La prima è di Alvin quando ha detto a noi e a Rose che deve rimettersi sulla strada, go back on the road: e vedremo che il suo tornare sulla strada è anche un tornare indietro sulla sua strada, nella sua vita.
La seconda frase, sempre di Alvin, è quella sul grabber, sulla pinza afferra-oggetti che serve appunto per afferrare le cose: ed è segnale di saggezza realista e pragmatica.
La terza frase è adesso quella di Rose, mentre il grande silos brontola: «It's harvest time», è tempo di raccolto. Lo dice Rose ma vale, varrà soprattutto per Alvin. Il suo viaggio verso Lyle (vivo? morto?) è, sarà il suo tempo di raccolto. Incontrerà gente, parlerà con degli sconosciuti, tirerà fuori vecchi episodi e vecchie, dolorose storie: insomma, farà i conti con il suo passato e sarà per lui tempo di raccolto.
Lynch, con tre frasi, trasforma il percorso lineare, piano e orizzontale di Una storia vera in un viaggio nell'esistenza trascorsa e in un tempo di raccolto. Una storia vera acquista via via un'architettura complessa, si gonfia, si allarga.
E Alvin parte. Sul tagliaerba. Con quel grosso rimorchio. Ed è tutto solo sulla strada che attraversa Laurens. Gli unici che lo guardano sono i vecchietti della ferramenta. Escono fuori, cercano quasi di fermarlo, cosa vuole fare, dove vuole andare, arrivano anche i cani, Alvin non fa una piega, tira dritto, piano. Il padrone della ferramenta, quello del grabber, profetizza che non arriverà neanche a Grotto (sembrerà che abbia ragione...).
Momento cinematografico riflessivo. Stacco sull'asfalto e sulla riga gialla della mezzeria. La macchina da presa si alza piano, inquadra Alvin alla guida del tosaerba che si tiene prudentemente sul bordo della strada, poi la macchina da presa abbandona Alvin, lo sposta nel fuoricampo, lascia anche la strada, sale verso le nuvole e il cielo, resta a guardare cielo e nuvole per un po', poi sempre con calma ridiscende verso i campi e la strada dritta: e Alvin con il suo trabiccolo si è spostato appena poco avanti.
Il tempo del film d'ora in poi è questo, un lento muoversi, uno spostarsi quasi a passo d'uomo. Sotto c'è la terra, sopra c'è il cielo. Lynch adatta il suo cinema all'impresa che racconta: un lungo, tranquillo sguardo sulla strada, poi su Alvin, poi in alto sul cielo, poi di nuovo giù verso terra, verso la strada, i campi e Alvin che avanza piano, che è pronto a tornare indietro nella sua esistenza, che è pronto al raccolto.
Intorno, nella campagna, le mietitrebbia sono al lavoro. Alvin saluta una signora che stende i panni, con accanto un bambino. Una dissolvenza dopo l'altra, campi e campi. Il cartello di Grotto a 5 miglia. Passa un grosso camion, spostamento d'aria, il cappello di Alvin vola via, deve fermarsi a raccoglierlo aiutandosi con i due bastoni, risale con fatica sul tosaerba, tenta di riaccendere il motore che non riparte. L'aveva detto quello della ferramenta che non arrivava a Grotto.
Alvin fa segno a un pullman di fermarsi. E tocca all'autista dire un'altra di quelle frasi che noi prendiamo e mettiamo da parte (la quarta), verranno buone per il nostro viaggio dentro il film. Alvin chiede un passaggio all'autista, ha un problema con il motore. L'autista guarda il tosaerba e dice quello che tanti altri diranno ad Alvin nel suo viaggio: ma cosa diavolo stai guidando, ma vai in giro su quel coso lì... Glielo diranno tutti quelli che incontra e l'ultimo che gli dirà questa frase la dirà, tale e quale ma con nella voce un'intensa commozione: e la frase suonerà completamente diversa.
Il pullman è della Sun Ray Tours ed è pieno di vecchietti e vecchiette. Sembra che Alvin non riesca a staccarsi da questo vecchio mondo.
10. Fabrizio Tassi
La partenza sul tagliaerba (24'30") avveniva al centro dello schermo, con la macchina fissa (che poi si spostava lievemente all'indietro), tanto che Alvin sembrava quasi fermo. La lentezza di quel suo procedere controcorrente, contro il tempo e la vecchiaia, contro la fretta, era sottolineata dai vecchi amici che lo circondavano e, camminando, andavano quasi più veloci di lui.
Ora, invece, lo ritroviamo (30'50") fermo su un camioncino che lo riporta a casa a tutta velocità, con la macchina da presa che lo lascia letteralmente indietro. No, non ce la farà mai.
Gli amici lo vedono passare, oltre la finestra (il camioncino col tagliaerba attraversa velocemente lo schermo da destra a sinistra), e loro, che sembravano così invidiosi e velenosi, così poco amichevoli, scuotono la testa sconsolati, soffrono per lui, ritrovano nel suo fallimento il destino impotente della loro età.
Uno stacco ci riporta in casa Straight. Torniamo per un attimo dentro la commedia (western). Rose ha riassunto la storia alla vicina di casa, quella grassa, sempre impegnata a farsi bella (stavolta era dal parrucchiere, che ha fatto un pessimo lavoro). Bevono latte, mentre la macchina da presa arretra per accogliere l'ingresso di Alvin, che entra nella stanza zoppicando, preceduto dalla sua ombra, con un fucile in mano. "Cosa vuole fare tuo padre con quel fucile?". "Non lo so". Controcampo. BUM: e il tagliaerba esplode in una fiammata. Si fa così con i cavalli azzoppati. Quattro inquadrature con stacchi veloci, che ci portano verso un'altra scena molto bella.
C'è un nuovo cavallo-tagliaerba da acquistare. Alvin cammina al fianco di Tom, venditore di macchine agricole, un uomo vero come lui, che commenta la sua impresa e la sua ostinazione: "Ti ho sempre reputato una persona intelligente…", "Beh, ti ringrazio", "…fino ad ora". Se la ridono, mentre arrivano davanti a un magnifico modello di John Deere del '66. E' usato, ma il motore è ok, ha la vecchia trasmissione, niente di sofisticato: è una buona macchina. Parlano davanti al profilo del tagliaerba che spunta in primo piano. La macchina era di Tom: nessun dubbio che sia in ottimo stato.
Ed ecco un'immagine che vedremo più di una volta in questo film (anzi, l'abbiamo già intravista): Alvin che attraversa lo schermo cavalcando il suo tagliaerba, al di là di un vetro. E' come se quella finestra mettesse una distanza tra lui e noi: lo vediamo, lo ammiriamo (attraverso quella trasparenza, come è trasparente lui coi suoi valori semplici), ma è come se fossimo spettatori di una storia e di un modo di essere che purtroppo non ci appartengono più. Lo guardiamo con lo sguardo di Tom, in cui leggiamo affetto, ammirazione, ma anche malinconia, forse nostalgia.
Ora il tagliaerba procede dritto verso l'orizzonte, e una dissolvenza incrociata ci mostra Rose lasciata indietro dalla macchina da presa, salutata un'altra volta. Si ricomincia!
11. Bruno Fornara
Quando Alvin ha sparato al tosaerba-cavallo-azzoppato per eliminarlo, Lynch ha fatto di lui un altro personaggio e ha introdotto nel film un altro livello. Alvin diventa d'ora in poi anche un'altra persona, tra le diverse persone che è già, e gli tocca anche un altro compito, oltre ai compiti che già deve svolgere. Diventa un cowboy con il fucile in mano e lo Stetson in testa: diventa un americano che viaggia all'indietro e all'incontrario nella storia americana. Si muove da Ovest verso Est: contromano rispetto a quello che avevano fatto i suoi predecessori lungo la frontiera mobile della conquista, partita dalla costa atlantica verso il Pacifico.
L'architettura del film si allarga ancora: in parallelo al tornare indietro di Alvin nella sua esistenza, inizia qui, con la fucilata all'ormai inutile Rehds, il suo viaggio all'indietro e al contrario nella storia americana. Si apre un altro di quei tanti percorsi e livelli che fanno passare il film da un viaggio di superficie a un viaggio in profondità dentro una vita e dentro la storia.
C'è anche un'altra indicazione, piccola e sottotraccia ma non di poco conto, nel momento in cui Alvin, acquistato il tosaerba verde, di marca John Deere, si avvia nuovamente e sempre pian piano, a passo d'uomo, per questa seconda volta che sarà la volta giusta. Alvin e il John Deere sembrano ancora più piccoli quando passano, al minuto 33 e 45 secondi del dvd, tra due file di grandi macchine verdi, tutte John Deere, quasi che Alvin e il tosaerba fossero dei fratelli minori rispetto ai fratelli maggiori delle grandi mietitrebbie e dei grossi trattori.
Alvin è come se venisse investito, lui fratello maggiore di Lyle, di un compito ufficiale, è come se passasse in rassegna le truppe verdi in alta uniforme, come se trattori e mietitrebbie gli rendessero omaggio, gli augurassero buon viaggio. Lynch nell'immagine del piccolo tosaerba guidato da Alvin che passa tra le grandi macchine agricole introduce con cautela, sottovoce, senza nessuna sottolineatura retorica, un'altra delle sue indicazioni che innervano il film: il rapporto tra il piccolo e il grande, tra due fratelli, il maggiore e il minore, che hanno bisogno uno dell'altro.
Ritornerà questa immagine del piccolo e del grande appena prima che Alvin arrivi alla meta, poco prima di giungere alla casa (una catapecchia!) di Lyle (vivo?, morto?). Il tosaerba (in difficoltà!) di Alvin (affranto) incontrerà (in una inquadratura silenziosa) un grande trattore e succederà una cosa sorprendente (ma prima di arrivare lì, prima di arrivare quasi alla fine del film, c'è ancora tanta di quella strada da fare e tanta di quella gente da incontrare).
Alvin ha imparato qualcosa dal suo precedente tentativo fallito: ha imparato a calcarsi il cappello sulla testa quando sente avvicinarsi un bestione di camion (eccolo, subito, un altro esempio del rapporto grosso e veloce vs piccolo e lento). È molto soddisfatto, con la faccia di chi ride sotto i baffi, quando il camion l'ha sorpassato furiosamente e lui il cappello ce l'ha ancora ben saldo in testa.
Poi passa davanti a Grotto, con quelle pacchiane ricostruzioni della passione e del Calvario. Poi si avvia lungo le strade che vanno fino all'orizzonte. Poi la sera si ferma e con il grabber, che serve proprio per afferrare oggetti, tira su della legna per farsi un fuoco mentre il sole tramonta. Se ne sta seduto con il cappello in testa, il sigaro in mano e in bocca, smuove la legna perché prenda bene la fiamma, si guarda in giro seduto vicino al tosaerba verde e al rimorchio che è il suo covered wagon, il carro coperto dei pionieri. Lynch gli regala un'inquadratura bella larga, lui il fuoco il tosaerba il rimorchio il prato una fila di alberi e il cielo. Alvin prende possesso del mondo, di due mondi, quello suo di adesso e quello dei pionieri di una volta. Si fa un fuoco. “Farsi un fuoco” è un bel racconto di Jack London.
Al mattino, Alvin riparte. C'è una ragazza al bordo della strada, zaino sulle spalle. Alvin le passa accanto, la saluta con la mano, lei non fa una piega, è scocciata che lui non la prenda su. La sera, Alvin è seduto accanto al suo fuoco e la ragazza ricompare, nessuno si è fermato a darle un passaggio. È il primo incontro, di molti, che Alvin fa nel suo viaggio.
12. Fabrizio Tassi
In realtà la ragazza con lo zaino in spalla più che scocciata sembra interdetta e quasi infastidita dal passaggio di Alvin. Sembra pensare: "Ma dove crede di andare questo vecchio pazzo"? Al minuto 35'50" la vediamo allungare il braccio per provare a fermare una macchina che sfreccia veloce e suona il clacson. Quando vede il tagliaerba di Alvin (quanto ci mette ad arrivare lì da lei?), la ragazza fa due passi indietro con le braccia sui fianchi. Alvin la saluta passandole davanti, ma lei non risponde (maleducata). Lei ha fretta di andare, di fuggire, di muoversi, non le serve quel trabiccolo che viaggia a passo d'uomo.
Una dissolvenza incrociata ci svela il profilo di una collina al tramonto. E' arrivata la sera. Alvin ha acceso un fuoco. Alvin è piccolo, immerso nell'immenso buio della notte, illuminato appena dalla luce delle fiamme. E dalla notte buia sbuca anche lei, con le mani in tasca: "Non si è fermato nessuno".
La ragazza ora sembra dolce e indifesa. Lui le offre da mangiare, ovviamente salsicce. Dopo qualche campo e controcampo, li ritroviamo insieme nella stessa inquadratura, intorno al fuoco. Poi Lynch li separa di nuovo, in un dialogo che lei inaugura (dopo aver lanciato un'occhiata al rimorchio) con un: "Che schifo di rottame!". Ragazzaccia. "Pensa a mangiare, principessa", risponde Alvin, e noi applaudiamo il vecchio cowboy e la sua rude ironia che la mette al suo posto.
Il silenzio risistema le cose. Lei mangia, forse comincia a capire, lui la guarda e la vede finalmente fragile. Ora si può parlare sul serio.
La macchina da presa si sofferma sul fuoco e poi si sposta sulle scarpe da tennis di lei, i pantaloni col risvolto sopra strati di vestiti, i suoi occhi spauriti. "E' da molto che sei in viaggio?", chiede la ragazza. "Beh, praticamente da tutta la vita". La metafora del film è così evidente che se ne può parlare apertamente. E solo ora, in questo dialogo con una sconosciuta - con lui e lei in c/cc da una parte dell'inquadratura, quella in cui c'è il buio, e la fiamma che trema dall'altra parte dell'immagine - scopriamo qualcosa della vita di Alvin: i 14 figli, solo 7 sopravvissuti, la moglie morta 11 anni fa.
"Dov'è la tua famiglia?", chiede Alvin. E lei risponde col silenzio. Lo stacco sul primo piano di lui ci fa capire che stiamo arrivando al dunque. "Sei scappata di casa"? "A che mese sei?". Alvin ha già capito tutto, ma invece di fare la predica a questa ragazza in fuga (in viaggio!) al quinto mese di gravidanza, le racconta una storia, la sua storia, quella che stiamo vivendo attraverso il film. Noi diventiamo lei, siamo la ragazza che da quella storia forse può imparare qualcosa sulla propria vita, il proprio viaggio. "Sto andando a trovare mio fratello", le dice, e parlano del Wisconsin, delle feste grandiose che fanno laggiù, e se la ridono, sono già amici. C'è intimità, ora, c'è lo spazio necessario per la verità (umana).
Dopo la fame, intanto, arriva il freddo. Siamo al livello dei bisogni essenziali: mangiare, trovare un riparo, amare, essere amati. Lei va a prendersi una coperta sul rimorchio, il "rottame". E dopo un altro lungo silenzio (quanto è vero questo incontro!), dopo che lei ha raccontato le sue paure (la sua famiglia la odierà per quel bambino, neanche il suo ragazzo lo sa), dopo che lui le ha detto che un letto caldo è meglio che stare a mangiare salsicce all'aperto con un vecchio pazzo che viaggia su un tagliaerba, ecco che Alvin le rivela, ci rivela, la storia di Rose: "Qualcuno pensa che sia ritardata, ma non è così, sa molto bene quello che conta veramente nella vita".
Alvin racconta di un incendio terribile, sulle immagini del piccolo fuoco che scalda il vecchio e la ragazza (ricordare fa male ma è necessario, la memoria è una fiamma da tener viva, la distanza rende tutto meno tragico, ma ugualmente terribile). Uno dei quattro bambini di Rose rimase gravemente ustionato. E mentre ascoltiamo Alvin, la macchina da presa per la prima volta si stacca dal presente per riportarci lentamente dentro l'immagine che aveva lasciato in sospeso, la palla che rotola e Rose che guarda fuori dalla finestra e vede se stessa in lacrime. Le portarono via i bambini. Da quel giorno non fa altro che piangere quell'assenza.
E' tempo di arrivare alla parabola finale: un gioco che Alvin faceva coi suoi figli. Un bastoncino è facile da spezzare. Ma se li leghi in un mazzetto, romperli è impossibile: "Quel mazzetto è la famiglia". Ciò che in qualsiasi altro film sarebbe vuota retorica, perfino un po' sospetta, qui diventa miracolosamente vero, sincero, buono e giusto.
E' tempo di andare a dormire. Lei rimarrà lì fuori, "Perché guardare le stelle mi aiuta a pensare" (sì, piace anche ad Alvin e a Rose e a tutti noi). La ragazza lo aiuta ad alzarsi, è già diventata un'altra, o forse è tornata ad essere se stessa. E il giorno dopo, al suo posto, Alvin troverà solo un mazzetto di bastoncini legati.
13. Bruno Fornara
Questo viaggio sul tosaerba serve a molte cose. Una è che Alvin a ogni persona che incontra può raccontare qualcosa della sua vita: e così ricostruirla e ripercorrerla, metterla in parole e in racconto. Cioè farla sua (e nostra). Un'altra cosa a cui serve il viaggio è che Alvin capisce che può essere utile a ogni persona che incontra, può dare un consiglio (non proprio a tutti darà un consiglio: alla donna che investe i cervi non dice niente, cosa vuoi consigliarle?). Incontro dopo incontro, Alvin riporta a galla il suo passato e anche chi incontra, come questa ragazza, può parlare con lui di un suo segreto. È più facile confessarsi a uno sconosciuto, certe cose si dicono a chi non si incontrerà mai più.
Alvin riparte, passo lento, granturco, strade dritte. E un temporale. Cielo scuro, nuvole basse, borbottio di tuoni. Una storia vera è anche un film meteorologico sul tempo che fa. Alvin cerca un riparo, si infila in una costruzione in legno, a lato della strada, e sembra che l'apertura sia uno schermo su cui osservare il temporale sui campi. Fermarsi a guardare il mondo, lo spettacolo dell'acqua che scende a scrosci. Sigaro, braccia in conserta, Alvin se la gode.
Riparte con il sole al tramonto, accompagnato dal tenero motivo che abbiamo già sentito. Al mattino, sorpresa: lo sorpassano un ciclista, un altro, un gruppone di ciclisti. Alvin scende dal tosaerba, sorride, un ciclista ha un elmo con due corna da vichingo, gente simpatica, corre così per correre. Lynch inquadra prima all'altezza di Alvin, poi dall'alto dei cieli la lunga fila di pedalatori. Sembra non sia un incontro, questo; invece, una dissolvenza ci porta al campo dei ciclisti, la sera.
È il secondo incontro che fa, breve, poche frasi, non sembra che Alvin tiri fuori niente della sua vita passata. Non è così. Anche stavolta Alvin sa di parlare della sua esistenza: lo sa lui, noi e i ciclisti non lo capiamo.
I ciclisti hanno già piantato le tende, lo accolgono con applausi, lui si toglie il cappello, fa un inchino. Si siede con dei ragazzoni. Uno di loro saluta con simpatia una ragazza che passa. Alvin commenta: «Non si pensa alla vecchiaia quando si è giovani. Non si deve». Alvin, vicino al fuoco, si fa serio. Il ragazzo gli chiede se nella vecchiaia ci sia qualcosa di buono. Per Alvin non c'è niente di buono nell'essere cieco e storpio, «ma alla mia età ho visto quasi tutto quello che la vita può dare». Poi una citazione evangelica: «So come separare il grano dal loglio per far scivolare via quello che non serve». Il ragazzo annuisce. Un altro ragazzo con un pallone da football chiede ad Alvin «qual è la parte peggiore nell'essere vecchio». Attenzione alla risposta di Alvin, sicura, dritta: «The worst part of bein' old is remembering when you was young». La cosa peggiore di essere vecchio è ricordarsi di quando si era giovani.
Stacco. Pioggia. Alvin viene accerchiato a sinistra e a destra da giganteschi camion. Sembra preoccupato. Dissolvenze. Cielo limpido, un'auto supera Alvin. Clacson, frenata, botto. Alvin si avvicina alla macchina. Sotto il muso malridotto c'è un cervo morto. Alvin chiede se può essere d'aiuto. E comincia l'episodio, molto istruttivo, della signora che investe i cervi, in quantità notevoli.
Passetto indietro, fino ad Alvin e alla sua risposta su quale sia la cosa peggiore dell'essere vecchio: perché è un'altra di quelle frasi che vanno al di là del loro senso di superficie. Quando Alvin dice che la cosa peggiore della vecchiaia è ricordarsi di quando si era giovani, noi pensiamo che voglia dire che ogni vecchio ricorda con nostalgia la sua giovinezza, come si era in forma, veloci e scattanti come i ciclisti e quel giovane col pallone da football. Non è così che la frase va intesa. Va intesa proprio all'opposto. Quando Alvin pensa alla sua gioventù, gli vengono in mente solo ricordi dolorosi. Tanti. Uno in particolare. Che scopriremo quando Alvin incontrerà un altro vecchio che, come lui, è stato soldato in guerra. È a lui che Alvin racconterà un episodio che per tutta la vita, dalla giovinezza di soldato fino a questa sua vecchiaia, gli è pesato nella memoria e sul cuore.
Lynch costruisce, passaggio dopo passaggio, incontro dopo incontro, l'architettura e il respiro del film. Questa frase di Alvin bisognerà averla ben presente quando lui e l'altro vecchio saranno al bancone del bar e ricorderanno le loro guerre. Ma adesso c'è la signora ammazzacervi.
14. Fabrizio Tassi
L'episodio del cervo sta al centro del film, al minuto 54'. Alvin viene superato da un'auto, rumore di clacson, freni che stridono, zoom che rimbalza sul viso di lui. Dal rumore del botto al primo controcampo passano 34 secondi - un tempo lunghissimo - in cui Alvin si ferma, scende con calma dal tagliaerba e cammina verso l'incidente. In realtà si tratta di una carrellata di fianco al vecchio Straight, per farci apprezzare il paesaggio vuoto sullo sfondo, prima di arrivare ad inquadrare l'auto fracassata e il cervo morto. Il c/cc arriva qui, quando lui offre il suo aiuto alla donna-autista-ammazzacervi e lei si lancia in un surreale monolog sull'impossibilità di evitare gli animali, anche se stai con le luci accese, suoni il clacson, urli fuori dal finestrino, batti i pungi sulla fiancata e metti i Public Enemy a tutto volume (sui Public Enemy anche Alvin trattiene a stento un sorriso). A quanto pare non serve neppure pregare san Francesco e san Cristoforo. Non c'è santo (o gruppo rap) che tenga con quei dannati cervi. Ne investe uno quasi ogni settimana (per la verità tredici cervi in sette settimane fanno quasi due a settimana).
Di fatto la signora è costretta a percorrere quella strada (e stavolta Alvin il sorriso non lo trattiene più). Ma ecco lo stacco che rende la sequenza straordinaria e illuminante, l'inquadratura su un panorama desertico, piatto, dove domina il nulla fino all'orizzonte. "Ma da dove vengono?", urla lei e pensiamo noi. Il fatto che la signora ami i cervi (lo grida) non è certo un dettaglio e rende tutto ancora più spassoso e strambo e metaforico.
In questo film di Lynch, lo abbiamo già detto, c'è tutto Lynch - le inquietudini, gli orrori, i fantasmi e i mostri dell'anima, le apparizioni assurde - ma tutto riportato alla sua radice intima e quotidiana, ad una dimensione più "famigliare", a cose, persone, animali, strade (dritte) e semplici divagazioni (deviazioni). Se poi vogliamo fare della filosofia, qui si parla dell'incomprensibile inevitabile, della follia che sta dentro ad ogni vita (anche sulla strada apparentemente dritta di una pendolare), della bizzarra divertente angosciante presenza dell'assurdo, dell'inspiegabile, del misterioso.
Lei sgomma via dall'incidente e Alvin rimane a contemplare il cadavere del cervo in mezzo alla strada, in una delle immagini più belle del film, con la strada che si perde all'infinito verso il cielo. Stacco. Fuoco acceso per l'ennesimo bivacco. Alvin risponde all'assurdo a modo suo, riportandolo coi piedi per terra. Il misterioso cervo è un pasto ottimo e abbondante. Anche se alcuni parenti inanimati lo osservano da vicino (bellissimo anche il totale degli animali-statue, la catapecchia abbandonata e il tagliaerbe illuminato dal sole al tramonto). Dopo il nero, ritroveremo il cielo e il trabiccolo di Alvin abbellito dalle splendide corna del cervo. Alvin è un tipo concreto, già lo sapevamo. Bada al sodo. E ha un suo senso estetico.
15. Bruno Fornara
Mi fermo anch'io sulla scena del cervo e della signora ammazzacervi (un record, tredici in sette settimane): perché è la scena più apertamente lynchiana del film e perché mi sembra che Lynch la risolva nella maniera meno lynchiana o anche nella maniera più antilynchiana.
Dopo che abbiamo sentito, fuori campo, il botto della macchina che investe il cervo, Alvin scende dal tagliaerba. Dietro di lui c'è una pianura brulla (mai vista prima così, senza coltivazioni) e proprio vicino al suo rimorchio si alza un cartello triangolare su cui sta scritto l'avvertimento: “NO PASSING ZONE”. Viene subito in mente un altro cartello cinematografico, quello che sta nella prima immagine di “Quarto potere” di Orson Welles dove c'è scritto “NO TRESPASSING”. Avvertimenti che ovviamente il cinema non rispetta: il cinema è fatto per andare a vedere, non per fermarsi davanti a un divieto di accesso.
Anche Alvin va a vedere e si trova appunto in una zona di oltrepassamento della normalità, una di quelle zone in cui le regole del mondo com'è non tengono più e le cose sono altre, funzionano secondo modi e sregolatezze non più comuni (che sono poi le zone più frequentate dal Lynch lynchiano, zone che lui conosce bene). La signora investe cervi su cervi, non c'è modo di scansarli. Quando arriva in questa 'no passing zone', c'è un cervo che l'aspetta, che lei investe e che continua settimana dopo settimana a investire.
Alvin le chiede se ha bisogno d'aiuto. Lei non vuole aiuto, vuole solo sfogarsi: e Alvin non dice una sola parola. È l'unico episodio del film, l'unico incontro in cui Alvin non parla, sta zitto ad aspettare che lei abbia finito (così può portarsi via il cervo...) e che si chieda perplessa “Where do they come from?” guardando la pianura improvvisamente arida, desertica e incolta, con solo qualche scheletro d'albero.
Già, da dove saltano fuori i cervi. La signora non ha una risposta: che è, in verità, piuttosto facile. Se li porta dentro lei, questi fantasmi, cerca di eliminarli ogni volta e ogni volta tornano fuori dal deserto. Non sa fare i conti con il suo passato che è esattamente quello che invece Alvin sta facendo nel suo viaggio. Lynch non mette nessuna sottolineatura lungo la scena del cervo e trova il modo per uscirne in maniera splendida con quella immagine finale che riassume il modo, del tutto diverso, che ha Alvin di misurarsi con i suoi cervi, quelli con cui deve anche lui confrontarsi, da una vita.
La larga e ben studiata inquadratura conclusiva mette sulla sinistra una casa di legno malmessa e sbilenca: pronta a prendere fuoco, come è successo alla casa di Rose e come succederà di qui a poco nell'episodio che sta per arrivare. Poi c'è Alvin accanto al fuoco di bivacco (un altro fuoco, controllato però) che si cuoce una bella bistecca di cervo (Alvin i suoi cervi se li mangia). E dietro ad Alvin ci sono tanti altri cervi (immobili, impagliati, presenti ma resi ormai inoffensivi) e sulla destra c'è il tosaerba con il rimorchio che porta sulla fronte le corna del cervo investito dalla signora a cui Alvin non ha detto neanche una parola. Alvin ne ha tanti di cervi con cui vedersela, lo sappiamo. Li ha tirati fuori parlando con le persone che ha incontrato. E di qualcuno deve ancora parlare, deve ancora riportarlo in superficie – in special modo uno, molto doloroso, quel soldatino di Milwaukee suo commilitone. Il suo viaggio serve anche a questo, a fare i conti con i suoi cervi (noi diremmo con i suoi cadaveri nell'armadio).
Per finirla con i cervi, mi è sempre parso bello che Alvin, i suoi cervi, non li mangia, se li porta in giro con sé, li ha ben presenti, ce li ha, impagliati, dietro le spalle. Quello che si cuoce al fuoco e si mangia è il cervo ammazzato dalla signora...
Lungo schermo nero. Alvin in viaggio. Le corna del cervo investito e mangiato come trofeo sul rimorchio. La terra coltivata, non il deserto, e un grande incendio. La prima immagine è di un fuoco violento visto da vicino: e il fuoco, lo sappiamo, è uno dei cervi di Alvin. Poi la seconda immagine, molto più aperta e più larga, che mostra in primo piano cinque persone comodamente sedute su delle sedie da giardino che guardano, oltre la strada, lo spettacolo dei pompieri al lavoro per una esercitazione, per spegnere l'incendio di una capatepecchia di legno abbandonata, un po' come quella che Alvin aveva dietro di sé mentre cuoceva la bistecca. Inizia così l'episodio più lungo del film, organizzato su diversi momenti e centrato su un tema fondamentale, quello dell'accoglienza dello sconosciuto, di chi arriva su un tosaerba, viene da lontano e ha ancora parecchia strada da fare.
Alvin, con gli incendi (non sa che questa è una esercitazione), con il suo cervo dell'incendio, non è ancora capace di controllarsi. E infatti...
Ha bisogno del telefono ma non ha nessuna intenzione di entrare. Il padrone di casa insiste, è