Alvin riparte con il tagliaerba. Giaccone a quadrettoni rossi e neri, fa freddo, è mattina presto. Passa per un paese identico al suo, una strada, poche case ai lati, un grosso trattore. Il mondo è uguale dappertutto. Sulla strada più grande, fuori dal paese, incrocia una macchina che si tira dietro una pannocchia gigante. Colline dolci, musica dolce, i campi coltivati, le strisce di colore dell'erba e del granturco. E il Mississippi, passato su un ponte in ferro che Alvin guarda ammirato: saluta contento dei bambini su un pick-up, è meravigliato che il ponte sia costruito in pannelli metallici forati, si guarda in giro, sulla riva del fiume che scorre calmo c'è un paese non uguale agli altri (allora il mondo non è lo stesso dappertutto...). Poi lo sguardo di Alvin sembra rattristarsi, come vedesse la scena che arriva in trasparenza. Un cimitero.
È un cimitero con vecchie tombe dalle lapidi sbilenche. È notte. Siamo a una delle ultime soste, quella in cui Alvin riceve una meritata benedizione, dopo averci ricordato che la storia potrebbe finire male, che forse il fratello è morto, che quel lungo viaggio rischia di diventare inutile (ma noi già lo sappiamo che non è stato inutile, lo sentiamo che non può finire così).
Accanto al cimitero c'è una costruzione in legno, ne esce un uomo, si avvicina ad Alvin seduto accanto al fuoco. L'uomo ha il collarino da sacerdote cattolico, porta ad Alvin qualcosa da mangiare, polpettone e purè. Alvin ha già mangiato, lo invita a fargli compagnia, gli prende una sedia dal rimorchio, il prete si siede con lui, spiega che il cimitero è uno dei più vecchi del Midwest, quello dei cacciatori francesi di Marquette. Jacques Marquette e i suoi uomini esplorarono il bacino del Mississippi nella seconda metà del Settecento.
Si conclude qui, in un cimitero, uno dei livelli narrativi nascosti del film, quello in cui Alvin è tornato indietro nella storia d'America: ci è entrato quando ha sparato al suo 'cavallo', al tosaerba azzoppato, come il cowboy o il trapper sparavano all'animale ferito, e si conclude qui, nel cimitero dei primi esploratori. Un viaggio all'insù nella storia del suo paese. Di più: si avvia a concludersi, sempre qui, un altro dei percorsi di questo film composito e stratificato, quello tenuto sempre sottotraccia di una sottile religiosità, delle domande sul senso dell'esistere, dal cielo stellato dell'inizio, al passaggio per Grotto, a questo incontro con il prete, al 'miracolo' del grande trattore (che incontreremo tra non molto). E ancora, con questo prete, Alvin porta a termine l'altro e decisivo percorso, quello del ritorno all'indietro nella sua esistenza, della ricomposizione del suo itinerario, dalla guerra, alla vita da ragazzo con il fratello, alla vita con Rose e i suoi bambini. Qui, al prete, Alvin racconta quello che non ci aveva mai detto, il suo rapporto con Lyle, il fratello che forse è morto o forse è ancora vivo, il fratello con cui vuole riconciliarsi.
Una storia vera è un film complesso, di una complessità classicamente nascosta, costruita lungo gallerie sotterranee. Lynch, il Lynch che ha sempre tirato fuori dal nascondimento i cunicoli della mente e del profondo, qui, quei cunicoli li ha lasciati ben custoditi dentro l'architettura profonda del film. E li ha dissepolti via via, lasciandoci il compito di ritrovarli, riconoscerli e ricostruirli passo dopo passo.
Il prete non può fare a meno di notare, come hanno notato tutti quelli che Alvin ha incontrato, l'insolito mezzo di trasporto di cui si serve Alvin, che ha la risposta collaudata: «Lei non è la prima persona che lo nota, padre». Ha la vista in cattivo stato, non può guidare e non gli piace il pullman guidato da un altro. Poi: «Sto andando a trovare mio fratello». Sente che il fratello è vicino: «Posso quasi sentirlo». Il prete è la persona giusta per rispondere, sa di un Lyle Straight che ha avuto un infarto, era all'ospedale quando Lyle è arrivato, è della sua parrocchia. Alvin obietta che Lyle è battista. Il prete sorride, come se questa cosa non contasse nulla: Lyle gliel'ha detto, gli ha parlato di tante cose ma non di un fratello. Alvin, pensieroso: «Nessuno di noi due ha avuto un fratello per un po' di tempo». Chiede al prete se l'ha rivisto, se Lyle sta bene. Il prete non l'ha più visto, non sa più nulla.
Lungo silenzio, poi Alvin racconta, sono cresciuti insieme lui e Lyle, in una fattoria del Minnesota, lavoravano duro, con i genitori sfiancati, i due fratelli giocavano, correvano, cercavano di non pensare al freddo cane, dormivano all'aperto nella corta estate, parlavano delle stelle, se c'era qualcuno nello spazio, hanno parlato molto mentre crescevano. È il prete a chiedere ad Alvin di fare l'ultimo passo: «Cos'è successo tra voi due?». E Alvin pesca dalla Bibbia, una storia vecchia, Caino e Abele, rabbia, vanità, alcool e così due fratelli non si parlano per dieci anni. Adesso, qualsiasi cosa sia successa tra lui e Lyle, «non conta più».
«Voglio fare la pace, voglio sedermi con lui, guardare le stelle come facevamo so long ago».
C'è un altro lungo silenzio prima che il prete risponda, prima che il prete metta un giusto sigillo al ricordo di Alvin: «Ebbene, signore, io dico amen a tutto questo». Amen, amen. È la parola che serve, che chiude il passato e spera in un futuro vicino di riconciliazione. E Lynch - come ha sempre fatto alla fine di ogni incontro di Alvin con tutte le persone che ha incontrato nel suo viaggio e alle quali ha parlato, con cui si è confidato e si è confessato - apre l'inquadratura, lascia i volti e mostra prima il cimitero nel buio, poi il cimitero, la chiesa e i due uomini accanto al fuoco. L'immagine scompare nel nero dello schermo e Alvin riappare, in viaggio, verso il fratello che ha sentito vicino.