Non ho statistiche precise a riguardo, ma se dovessimo calcolare il rapporto tra film di argomento calcistico e il totale della produzione cinematografica dei vari paesi, i valori più elevati probabilmente li troveremmo in Argentina.
A differenza dell’Italia, dove la grande passione per il calcio non ha avuto molte ripercussioni cinematografiche, in Argentina, altro paese di forte tradizione calcistica ma dalla produzione cinematografica numericamente più limitata, i film sul calcio sono stati non pochi.
Si potrebbero citare alcuni titoli degli anni ’30, come La barra de Taponazo (1932) di Alejandro Del Conte, la commedia Los tres berretines (1933) di Enrique Susini, la farsa ¡Goal! (1936) di Luís José Moglia Barth o El cañonero de Giles (1937) di Manuel Romero, canovaccio per il comico Luís Sandrini.
Il film che però segna uno spartiacque è Pelota de trapo (1948, trad. lett. Pallone di stracci). Diretto da uno dei padri del cinema argentino, Leopoldo Torres Ríos, resta nella storia del cinema di questo paese sia per il suo enorme successo, sia per essere stata la prima produzione argentina che utilizza le strade dei quartieri popolari come scenario reale (questo gli valse i giudizi lusinghieri della stampa internazionale).
È diviso abbastanza nettamente in due parti. Nella prima vediamo la passione per il calcio di un gruppo di ragazzini che si sfidano in interminabili partite con una palla fatta di stracci e che sognano di giocare in serie A. È soprattutto questa prima parte, con le sue vivaci scene di strada, girate in ambienti reali, che suscita attenzione. È qui chiaramente rintracciabile una non superficiale parentela col contemporaneo neorealismo italiano (malgrado già alcune scene di questa prima parte – come quelle in cui appare il curato – e poi quasi tutta la seconda, lascino emergere toni più retorici ed enfatici).
Interessante è anche l’uso del linguaggio, che non viene edulcorato, “perbenizzato”, ma cerca di rimanere fedele al modo di esprimersi dei ragazzi dei quartieri popolari (per questo la censura ebbe da ridire).
È da notare che i ragazzini appaiono molto più rissosi e attaccabrighe di altre compagnie di ragazzini cinematografici (per quanto il film ne mostri, al contempo, la fondamentale bontà d’animo): a vederli litigare e alzare la voce, non si può non pensare al comportamento spesso spavaldo, guascone, non di rado rissoso e “cattivo”, mostrato in campo dai grandi campioni argentini…
La seconda parte – nella quale uno dei ragazzini, divenuto adulto, entra in una squadra di prima divisione e scopre di essere affetto da una disfunzione cardiaca che gli impedirebbe sforzi violenti – assume accenti melodrammatici più convenzionali. Al centro di questa seconda parte, come poi di altri film sul calcio prodotti in Argentina, è il valore del sacrificio (per i colori della squadra – in questo caso la nazionale: “la bandiera è degna del maggiore dei sacrifici” – e per garantire un futuro migliore alla propria famiglia, il protagonista è disposto a mettere a repentaglio la propria vita, nascondendo il problema cardiaco).
Lo stesso sfondo mélo si ritrova in altri due film in qualche modo legati a questo, El hijo del crack (1953, t. l. Il figlio del fuoriclasse) e Pelota de cuero (Historia de una pasión) (1963, t.l. Pallone di cuoio – Storia di una passione). Il primo (la cui storia ha punti di contatto con Il campione di King Vidor) è diretto ancora da Torres Ríos, questa volta assieme a suo figlio, Leopoldo Torre Nilsson. La compresenza dei due registi è probabilmente all’origine di alcuni scarti stilistici, tra melodramma di impostazione tradizionale (in linea col cinema di Torres Ríos) e squarci onirici (come nella scena dei manichini) di cui è probabilmente responsabile Torre Nilsson, cineasta più aperto a influenze internazionali e agli spunti provenienti da un cinema più moderno.
Prevalgono comunque i toni patetici e lacrimosi (come spesso accade quando il cinema narra vicende famigliari). Ancora centrale è il sacrificio: per riconquistare l’ammirazione del figlio e dei tifosi, convinti che il calo delle sue prestazioni sia dovuto al fatto di essersi venduto (e non invece ai problemi fisici che ha tenuto nascosti), il protagonista è disposto a giocare un’ultima partita, con la quale porterà la sua squadra al trionfo, ma che gli costerà la vita. Tutto viene raccontato in flashback, a partire dal minuto di silenzio per ricordare il campione (così che lo spettatore sa, fin dall’inizio, della sua morte).
Interprete dei due film citati (e anche produttore) è Armando Bó, il quale di lì a poco affiancherà alla carriera di attore quella di regista (resta noto soprattutto per i soft core con la bellissima Isabel Sarli). In questa doppia veste realizza Pelota de cuero, incentrato sul tema della fedeltà alla maglia (“darei la vita per essa”). Il film racconta, anche qui in flashback, la vita di un grande campione sul viale del tramonto. Lo vediamo, ragazzino, giocare con la palla di stracci, per poi entrare nelle giovanili del Boca Juniors fino a divenire un campione idolatrato dalla folla. Anche per lui arriva però la fase discendente.
Grande spazio, ancora maggiore che nei due film precedenti, viene dato ai tifosi: le grandi masse che affollano gli stadi, la sofferenza sugli spalti, le discussioni accese, i cori e il folclore (come se questi film nascessero dall’esigenza di dare ai tifosi uno specchio in cui guardare la propria passione). In tutti e tre i film è poi cruciale la presenza di radiocronisti che commentano le fasi salienti delle lunghe sequenze delle partite, così da introdurre nella vicenda la tensione legata all’incertezza del risultato, ossia quell’elemento che è essenziale nella visione di una partita di calcio ma che risulta più difficile riprodurre in un film.
Il film ha accenti retorici molto marcati e francamente eccessivi. Tuttavia, il tragico finale (incapace di trovare un senso alla propria vita dopo l’esclusione dalla squadra che ha nel cuore, e non disposto a giocare per altri colori, il protagonista si uccide con un colpo di rivoltella nello stesso stadio che poco prima aveva visto il trionfo della sua squadra, per la prima volta schierata senza di lui) per quanto possa apparire eccessivo, trae ispirazione da una vicenda reale, quella dell’uruguaiano Abdón Porte che, nel 1918, dopo essere stato escluso dalla sua squadra, si suicidò nel campo in cui aveva giocato per tanti anni (la stessa vicenda ha ispirato un racconto di Eduardo Galeano).
Oltre a questi tre film, i più celebri, nel corso degli anni ’50, in Argentina vennero prodotte varie altre pellicole di argomento calcistico. Ricordiamo: Escuela de campeones (1950) di Ralph Pappier, Sacachispas (1950) di Jerry Gómez (Sacachispas è la stessa squadra dei ragazzini di Pelota de trapo), El hincha (1951) di Manuel Romero (scritto e interpretato da Enrique Santos Discépolo, grande compositore di tango), El cura Lorenzo (1954) di Augusto César Vatteone (sul sacerdote Lorenzo Massa, che usa il calcio per distogliere i ragazzi dalla delinquenza), El crack (1960) di José A. Martinez Suarez (sui meccanismi, spesso loschi, che stanno dietro al mondo del calcio professionistico: i toni sembrano trarre ispirazione da certi film americani sul mondo della boxe).
Come avviene nei film italiani sul calcio (Il presidente del Borgorosso Football Club, L’allenatore nel pallone, ecc.), anche in diverse delle pellicole citate appaiono veri campioni, a cominciare da Guillermo Stabile (il capocannoniere dei mondiali del ’30), presente in Pelota de trapo.
Concludiamo questa prima parte dell’excursus sul calcio nel cinema argentino citando un film curioso e originale, El centroforward murió al amanecer (1961, t.l. Il centravanti morì all’alba) di René Mugica. Tratto da un’opera teatrale di Agustín Cuzzani, che scrive la sceneggiatura, è una fiaba che fonde fantastico (alla Twilight zone), gotico, grottesco ed elementi surreali, e che rimane in bilico tra l’aspirazione al racconto filosofico e la critica al potere del denaro sull’uomo, ai limiti che il denaro pone alla libertà.
Protagonista del film è un centravanti amato dalla folla che milita in una squadra sommersa dai debiti. Dopo essere stato acquistato da un certo Señor Lupus, scopre che questi è un “collezionista di esseri umani”: nel suo enorme palazzo tiene rinchiusi alcuni individui eccezionali (l’uomo più forte, lo scienziato più geniale, ecc.). Qui il centravanti si innamora di una ballerina, con la quale progetta una fuga, non prima di aver discusso del senso del gioco del calcio con un grande attore costretto ad essere per sempre Amleto (quest’ultimo definisce il calciatore, per la sua spinta all’azione priva di qualsiasi ragione esterna ad essa, come il perfetto “anti-Hamlet”).
La prima parte, che mostra i successi del centravanti, riprende tutti i tòpoi dei principali film sul calcio passati finora in rassegna – le azioni spettacolari, il pubblico che esulta e discute sugli spalti, i commenti dei radiocronisti a bordo campo, il dilemma tra la fedeltà alla squadra e le lusinghe del denaro – mentre la seconda parte (ambientata nel palazzo di Lupus) introduce atmosfere gotico-surreali che possono apparire ingenue e un po’ pasticciate, ma che fanno di questa pellicola un lavoro singolare e meritevole di una visione.