Black Mass – L'ultimo gangster è il più recente tassello di un genere indicato con ironia dal sottotitolo italiano - come già nel caso del film di Fuqua - il cui principale motivo di richiamo è la presenza di Johnny Depp.
La “massa nera” del titolo – che riguarda la stretta correlazione tra malavita e polizia federale per sgominare la mafia italiana – nell'opera di Scott Cooper deve far i conti con un terreno non solo arcifrequentato, ma pure già esaminato in retroterra anche più profondi, dove il tono feroce spesso si accompagna all'elegia del romanzesco. In tempi odierni i modelli cinematografici, in quantità ormai incalcolabile, hanno conosciuto paradigmi nuovi e originali modalità nel dire identiche cose, come nella serie televisiva I Soprano. E per quanto fin qui non si affermi niente di nuovo, serve a comprendere come “il patto scellerato tra FBI e malavita,” così declama il manifesto, parta sbilanciato.
In verità Cooper, all'attivo con Crazy Heart e Il fuoco della vendetta, non mirerebbe al parallelo con l'ipertesto, di per sé troppo scoperto (e nella fattispecie rischioso), preferendo scindere il film in due blocchi narrativi. Il primo, rivolto alla caratterizzazione di James “Whitey” Bulger, gangster di origini irlandesi in una piccola zona di South Boston, efferato nelle proprie azioni criminali, nonché profondamente legato alla famiglia e al quartiere dov'è nato e cresciuto. Il secondo, più curioso, che comprende l'inchiesta sulla collaborazione tra il malavitoso e il G-Man John Connolly, interpretato da Joel Edgerton, il quale propone a Jimmy di diventare un informatore: complice anche la presenza di un fratello senatore, il patto consentirebbe, all'uno, di far carriera e godere di un più agiato tenore di vita, e all'altro di agire indisturbato facendosi scudo (e beffa) della parte complice. Sicché, dall'usuale luogo topico che questo genere di operazione richiede, si incede in un intrico non meno collaudato di “talpe” e delatori in un'usuale rete di ricatti e soffiate al miglior offerente, tresche e intercettazioni, raggiri e conseguenti vendette. E questo sia nell'FBI che nella criminalità organizzata, ancora una volta corrispettive antagoniste di un unicum sordido, prima che inevitabilmente (siamo a Hollywood, bellezza...) saltino i coperchi grazie a un nuovo capo dei federali e la collaborazione di un agente pentito e di due cronisti...
Volenteroso lo sguardo di Cooper nel concentrarsi su tale metà, guardando al cinema d'inchiesta e facendo il possibile per confezionare un prodotto che non sappia di già visto. Colpa anche della sceneggiatura di Jez Butterworth e Mark Mallouk (tratta dal romanzo omonimo di Dick Lehr e Gerard O'Neill), visibilmente indecisa sul percorso da seguire, la regia sembra preoccuparsi di voler sorprendere lo spettatore, risultando quantomeno sbilanciata: i momenti di tensione, che pur non mancherebbero, sono condotti con una dilatazione dei tempi e un effetto-sorpresa tirato allo spasimo, il più delle volte citofonato dai minuti iniziali, che finisce per nuocere all'esito finale. Il risultato è un compitino sterile e prolisso con troppa carne al fuoco e non abbastanza anima (forse nemmeno coraggio) nel trattare l'argomento.
Altrove, nella rappresentazione di oscuri retroscena, è stata dimostrata la fragilità di terreni impervii (un caso, alcuni anni fa, lo ha fornito The Good Shepherd – L'ombra del potere di Robert De Niro). E pur avendo le carte in regola per coniugare il film di denuncia a quello di genere, avvincendo lo spettatore e tenendone desta l'attenzione, qualche volta il cinema americano non spinge fino in fondo il pedale come in altri tempi era prerogativa di autori quali Alan J. Pakula o Stuart Rosenberg, sul modello dei Rosi, Petri, Damiani. Nonostante siano presenti le buone intenzioni nel voler prendere le distanze dal cliché, Cooper, chiamato a rimpiazzare Barry Levinson, non riesce definitivamente ad allontanarsi dal prototipo, conscio del fatto che si tratti della carta migliore per adescare lo spettatore: nella ferrea volontà di Bulger di rifiutare l'eutanasia al figlioletto malato, si ritrovano tracce di un Mike Corleone, laddove sulla contrapposizione tra mafia irlandese e polizia The Departed – Il bene e il male, pur discontinuo, diceva cose analoghe con maggior senso del ritmo.
Prodotto in sottrazione lievemente rétro, come il logo della Warner in apertura, Black Mass non mantiene fino in fondo la scelta dell'ellissi nei segmenti più cruenti, optando per una conclusione che, nei momenti clou, si rivela prevedibile. Né la mantiene sul piano della forma, dove lenti movimenti di macchina e campi lunghi non aggiungono, e anzi tolgono, epica a un racconto che si dipana lungo l'arco temporale di un ventennio. Per il resto, si è nel cinema di maniera e nel luogo comune a questo congeniale.
Suggestiva, però, la scelta di una narrazione in flashback pronta a rimescolare le carte in tavola, dove gli sgherri di Bulger – messi alle strette dagli interrogatori – ne rivelano le efferatezze suggerendo che sono gli informatori della cattura del gangster. A patteggiare col demonio, si sa, ci si rimette sempre. Tra psicologie non abbastanza approfondite, la stessa performance di Depp riserva più di una perplessità, zavorrata dai difetti di un prodotto sostanzialmente sbagliato. Truccato in un modo che a tratti rammenta Richard Attenborough nei panni dell'omicida Christie (e come lui pronto a seppellire sottoterra le proprie vittime), Depp si ispira a Christopher Walken in atteggiamenti ed esplosioni di violenza, peraltro continuando a guardare a Brando; in ruoli analoghi, o comunque similari, aveva offerto prestazioni più sobrie in operazioni, sull'argomento, decisamente migliori.
Boston (1970), l'agente dell'FBI John Connolly convince il gangster irlandese James "Whitey"Bulger a collaborare con l'FBI per eliminare un nemico in comune: la mafia italiana.