Greenwich Village, 1961. Tra i fumi di mille sigarette un cantante intona una canzone folk. Siamo in uno dei minuscoli locali che hanno reso celebre New York nel secolo scorso e questo momento è l’unico in cui la vita, il destino, la carriera di Llewyn Davis sembrano funzionare.
Poco dopo Llewyn è picchiato da un misterioso avventore, trova rifugio in una casa occasionale – uno dei tanti divani di passaggio di cui è pieno il suo quotidiano peregrinare – e viene umiliato da un’amica/amante che gli rinfaccia un approccio miserabile alla vita. E soprattutto perde un gatto. Che ritrova e riperde per specchiarsi infine in lui, simbolo dell’infinito ritorno, occhi spalancati sul mondo e capacità di ritornare sempre a casa.
Joel e Ethan Coen tornano con questo magnifico A proposito di Davis alle radici più profonde del loro cinema, a quella litania della sconfitta che distilla una concezione crudele del mondo con una massiccia dose di cupo umorismo yiddish.
Llewyn è una variante di Ed Crane, L’uomo che non c’era, e di Larry Gopnik, il Serious Man, tutti mirabilmente situati nel passato dorato della storia americana: gli anni cinquanta e sessanta. Ma se Crane costruiva la sua distruzione compiendo silenziosamente un’interminabile serie di scelte sbagliate e Gopnik affogava a causa dell’inspiegabile accanimento di un Dio insensibile, Llewyn è responsabile della propria rovina per eccesso di inedia, per incapacità di adattamento, per incuria, per superficialità.
Llewyn non è cattivo ma è refrattario a ogni confronto con il mondo. L’unica cosa che impara dall’esperienza è non far fuggire un gatto. Cammina in linea retta, si affanna più per casualità che per reale impulso al cambiamento, insegue un successo che – forse – anche lui sa di non meritare. Llewyn è fermo perché c’è sempre qualcuno che lo spinge a muoversi. È un personaggio che si definisce in levare: geloso del suo talento – il suo lavoro, quello con cui dice di pagarsi un affitto che non ha – ma incapace di compiere scelte (umane, emotive, professionali) che trasformino il suo percorso in una potenziale via di crescita.
Llewyn non è il bersaglio di un destino beffardo, non paga per scelte morali di cui ignora le conseguenze: è un uomo che si lascia vivere e si inventa vittima per non affrontare le responsabilità. Rifiuta la vita borghese – per lui è solo “esistere” – ma non sa costruirsi alternative. È un inadatto che ignora le variabili che il destino gli offre mancando un riscatto personale che non otterrà mai.
I Coen però, a differenza dei film precedenti, smorzano gli angoli e sembrano concedere una languida empatia al loro protagonista. La splendida fotografia di Bruno Delbonnel diluisce i toni caustici in un abbraccio di colori desaturati. E l’incoerenza di Davis – l’uomo che non sceglie – diventa un morbido esempio di umana inadeguatezza, la culla di rimpianti destinati a durare nel tempo, un’anamnesi ambulante del fallimento.
Attraverso la parabola di un musicista – non abbastanza bravo, non abbastanza forte, non abbastanza tutto – si racconta il male di vivere di una normalità irrisa dall’impudente apparizione del Genio che alla fine scende, come un dolente e serissimo sberleffo, a indicare con chiarezza ciò che non siamo, ciò che non saremo.
La vita di un giovane cantante folk nella scena musicale del Greenwich Village del 1961. Llewyn Davis è a un bivio. A New York, durante un rigido inverno, il giovane, con l’inseparabile chitarra alla mano, lotta per guadagnarsi da vivere come musicista, affrontando ostacoli che sembrano insuperabili - a cominciare da quelli che lui stesso ha creato. Sopravvive solo grazie all'aiuto di qualche amico o sconosciuto, accettando piccoli lavoretti. Le sue disavventure lo portano un giorno in un deserto Chicago Club per un'audizione di fronte a Bud Grossman.