Che poi un dialogo bisogna anche saperlo filmare, oltre che scrivere. Guardare due persone che parlano è discretamente semplice, basta un campo-controcampo, ormai anche i dilettanti partono da qui. Ma come la mettiamo se nel formato in 2.35 ci sta una massa che non deve soltanto fare numero ma è chiamata a un contraddittorio?
Altman usava l’overlapping, e nessuno l’ha mai eguagliato. In La classe Cantet intavolava dei dialoghi come fossero dei costrutti di suspense, messi in scena con tensione quasi sportiva. In En guerre Stéphane Brizé riempie lo schermo di volti e corpi, e raramente lascia che un volto solo o un corpo solo facciano la differenza, cioè rimangano isolati, occupino il centro.
È un cinema di sentimenti e di attori, e perciò l’accumulo ha un significato ulteriore rispetto alla semplice “direzione”, un significato di sentimenti immediati che ti piombano addosso come una locomotiva e di ritmo quale articolazione costante della scena. Verrebbe quasi da chiamarlo “senso della frase”, se non fosse così scontato. E comunque Brizé, legato alla tradizione del cinema francese d’attori a tal punto da sembrare “di papà”, e che invece del tradizionale cinema francese di papà prende la morale e la giustezza per elaborarla in funzione esclusivamente emozionale, quel senso della frase non lo evidenzia mai a bella posta, né lo impiega come maschera dietro cui nascondere facili lamenti o come trucco del mestiere con il quale fare magie populiste, ma se ne serve al pari di voce dialettica. Un senso della frase, quindi, capace di costruire un discorso compiuto e coerente. Pare facile, ma trovatemi voi, oggi, un altro capace di condurti a un meeting in una stanza fra operai in sciopero e CEO, con tanto di avvocati e portavoce, tutti seduti a un tavolo, con la forza e il nervosismo di una resa dei conti da western; e tu sei lì che vedi e ascolti, da una parte le vittime, dall’altra i padroni, ed è come assistere a uno scontro di titani.
In tutto questo, da sempre, dal suo primo lungometraggio (Le bleu des villes, 1999), è l’attore il mezzo di Brizé attraverso cui dare identità al film. Ancora un’idea “di tradizione”, eppure l’unica possibile per un regista che vuole parlare al cuore e del cuore. In En guerre, che racconta una guerra con un incredibile montaggio di guerra (della sodale Anne Klotz) e una superba colonna sonora elettronica (di Bertrand Blessing) che forse non a caso ricorda quella dei Tangerine Dream per Il salario della paura, gli interpreti sono la materia di cui è fatta la storia; e Vincent Lindon, uno dei più grandi attori viventi qui alla quarta collaborazione con Brizé, è il segno della temperatura di un film che non ha bisogno di privato perché tutto è pubblico, solo un paio di scene brevissime e veloci, una lacrima sul viso (quale audacia!) e un neonato tenuto in braccio a distanza, con timore, il resto è collettività, mucchio, comune.
Si può dire ancora cinema politico o si rischia di fare la figura degli idealisti retorici? Ho pensato a Il candidato (1972), il film di Michael Ritchie con Robert Redford candidato democratico che vince le elezioni a senatore, e che dopo la vittoria chiudeva con una domanda senza risposta: «E adesso cosa facciamo?». Era cinema politico, quello, e per l’America del tempo valeva come specchio su cui riflettersi.
En guerre ha lo stesso valore; sono certo che c’è anche la stessa domanda, dobbiamo soltanto riconoscerla.