No Other Land non riguarda Gaza. E non è incentrato sulla situazione odierna della Palestina, quella, drammatica, seguita agli eventi del 7 ottobre 2023. Riguarda, invece, la Cisgiordania e si colloca tra il 2019 e il 2023, settembre, con un’appendice in ottobre. Ma quello che mostra è in stretta correlazione con gli eventi di oggi e fa capire, una volta di più, quanto intricata e complessa sia la situazione di quelle terre martoriate e quanto inconciliabili siano le esigenze delle popolazioni che le abitano, soffermandosi, in particolare, sulla volontà israeliana di sradicare dalla propria terra la popolazione palestinese della zona di Masafer Yatta (sotto occupazione dalla guerra dei sei giorni, quindi dal 1967), per dirigerla verso le città vicine, con il pretesto che si tratta di un’area per l’addestramento militare (la Firing Zone 918, istituita negli anni ’80).
La forza del film sta nel mostrare in tutta la sua evidenza la ripetitività degli sgomberi forzati che i militari israeliani hanno messo in atto in quel periodo, di settimana in settimana, di mese in mese, su quelle terre; allontanando le persone dalle loro case e distruggendo le case stesse con le ruspe, da un momento all’altro. Persone che in alcuni casi resistono apertamente (come il protagonista, Basel Adra, e suo padre Nasser, che è il principale attivista della zona), in altri subiscono in silenzio ma poi, subito, ricostruiscono quello che hanno perso (le case, nella notte), riducendosi a vivere, nel frattempo, nelle vicine grotte; poi appunto i soldati ritornano, e il copione si ripete. Una volta. Due volte. Tre volte. Dando allo spettatore il senso, reale, della volontà israeliana di annichilimento di un popolo che ha come sola colpa quella di abitare un luogo che è l’unico possibile, come recita il titolo. No other land per loro.
«Gli israeliani hanno chiuso le nostre scuole, ci hanno tolto l’acqua e questo per mandarci via dalle nostre case e costruire insediamenti illegali e avamposti che violano ogni diritto internazionale», ha detto Basel Adra, che con Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor (in una coproduzione israelo-palestinese) ha realizzato il film, ritirando il premio per il miglior documentario agli European Film Awards 2024, dopo aver vinto lo stesso premio, e quello del pubblico, alla Berlinale e prima di essere candidato all’Oscar 2025. E questo è il significato principale dell’opera, che aggiunge un tassello di innegabile importanza documentaria al racconto cinematografico della questione arabo-israeliana.
Il valore aggiunto di questo film è infatti la presenza, tra i registi, del coprotagonista Yuval Abraham, giornalista israeliano coetaneo di Basel che, dopo aver studiato l’arabo, si è avvicinato alla cultura palestinese e ha cominciato a comprendere le ragioni di questo popolo, e le ingiustizie e le vessazioni a cui era, ed è, sottoposto, documentando nei suoi articoli la situazione di Masafer Yatta e affiancando sul campo, coinvolgendosi in prima persona nella realizzazione del film, l’amico palestinese. Il rapporto tra i due ragazzi, entrambi laureati (giornalismo e legge) ma separati dal fatto di essere l’uno libero di andare e venire, l’altro confinato in un territorio da cui lo si vuole peraltro estromettere, attraversa varie fasi, anche in relazione all’evolversi della situazione esterna: all’entusiasmo iniziale di Yuval e alle scene in cui i due, in auto, ridono e scherzano come due ventenni qualunque, subentra la consapevolezza della difficoltà, se non dell’impossibilità, di cambiare in qualche modo lo stato delle cose, pur facendolo dall’interno; Basel in particolare, dopo quattro anni di lotta e di resistenza sulle orme paterne, è preso da una sorta di rassegnazione e sembra voler abbandonare il campo tornando a ciò che dà da vivere alla famiglia, la pompa di benzina che si vede nella scena iniziale, nel momento in cui il padre viene arrestato. In ogni caso, dice, quella situazione va avanti da decenni: è inutile essere impazienti, se qualcosa dovrà cambiare ci vorrà un bel po’ di tempo, e di vite e di lotte. E non sarà qualche articolo, pur scritto da un israeliano su giornali israeliani, a mutare l’opinione di chi opprime e distrugge, ma soprattutto limita e confina, sentendosi in diritto di farlo. Nell’ultima parte del film, tra l’altro, si vedono gruppi di coloni israeliani occupare i territori da cui la popolazione palestinese è stata cacciata, scontrandosi, con la protezione dell’esercito, con quella parte della stessa che ha resistito in zona; e si vede il ferimento di un cugino di Basel come, a metà film, avevamo assistito al ferimento e poi alla morte di un uomo che si era messo a mani nude davanti all’esercito, per difendere un generatore di corrente. Il frammento finale è, come altri momenti inseriti qua e là, uno dei video che le persone del posto hanno girato con i telefonini, per documentare lo scempio. Perché se la situazione è, o pare essere, senza uscita, darne testimonianza è un dovere storico, oltre che etico e civile.
La storia di amicizia tra l'attivista palestinese Basel e il giornalista israeliano Yuval