Sam il selvaggio

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Nel centenario della nascita di Sam Peckinpah, pubblichiamo un estratto dell'articolo scritto da Massimo Lastrucci, che sarà pubblicato interamente sul prossimo n. 17 di Cineforum

 

Quando i suoi film diventavano quasi sangue del suo sangue e carne della sua carne, quando in qualche modo alla fine riuscivano a emergere dagli scontri con le forze finanziarie e produttive, allora Sam Peckinpah era al suo meglio, otteneva il massimo, raggiungendo il sublime, soprattutto quando costruiva articolate sceneggiature intorno alla tematiche che sentiva veramente sue.

Quando architettava drammi potenti (non esclusivamente: a volte sceglieva situazioni “quasi” comedy) con figure di maturi perdenti che, all'interno di un contesto di caos, violenza e progressivo imbarbarimento, lottavano per se stesse riuscendo almeno a mantenere ferma e solida la propria dignità.

Raccontava di converso anche di ossessioni devastanti e tragiche, di vendette contro i traditori (specialmente quanto riguardavano l'amicizia personale) portate alle inevitabili, cruente conseguenze. Comunque tutto questo sempre all'interno di quello che poteva definirsi un mondo tumultuoso di iperrealistica fantasia, in una generale situazione di disarmonia sociale e civile in cui spadroneggiavano le passioni primarie, le soperchierie e gli istinti bestiali.

Il mondo peckinpahiano era composto da tipi speronati, spesso avanti con l'età, mai stinchi di santo ma a loro modo spiriti integri e dignitosi. Per dare un'idea, basti lo splendido scambio di battute (ne Il mucchio selvaggio) tra  Bishop/Holden e il suo pard indignato Dutch/Borgnine sull'implacabile inseguimento dell'ex amico  Thornton/Robert Ryan: “Ci segue perché ha dato la sua parola!”, “Dipende anche a chi la dai!”.

Il regista trovò questi “eroi” in divi americani messi in ripostiglio o facce segnate dalla vita e da tante comparsate. Nomi come Brian Keith, Joel McCrea, Randolph Scott, Ernest Borgnine, Ben Johnson, William Holden, Jason Robards, James Coburn, Emilio Fernandez, ai quali facevano da contorno caratteristi come Warren Oates (che lui elevò genialmente a parti da protagonista), L.Q Jones, R.G.Armstrong o Jack Elam, quasi una citazione nostalgica vivente e ad hoc in Pat Garrett & Billy the Kid. Per i carachters giovani (tipologia che non amava molto), diede loro spazi efficaci specialmente a Kris Kristofferson (al suo primo grande ruolo in P.G. & B the K.), alla super star Dustin Hoffman (nel controversissimo Cane di paglia), a due duri come James Caan e Robert Duvall in Killer Elite.

Mondo trapassato e paradossalmente ora quasi riposto in bacheca tra quei classici che volle magari omaggiare però travisandoli alla radice nei linguaggi e nei contenuti (e pensare che un sapiente “adoratore” del western più canonico come Tullio Kezich allora non colse l'importanza davvero rivoluzionaria – anche nelle sue influenze psicologiche - del Mucchio selvaggio preferendogli artisticamente il più composto Butch Cassidy), il cinema di Sam Peckimpah sopravvive come un fiume carsico. Aldilà del suo essere irrimediabilmente legato a una stagione formidabile di ridiscussione globale di tanti valori e istituzioni.

Senza il suo senso della sconfitta, dell'onore e della insensatezza di una violenza che si fa carneficina ma anche filosofia e coreografia, oggi il cinema di John Woo, di Johnny To, di Park Chan-wook, di Takeshi Kitano (per citare i più dotati from Far East), ma anche, più corrivamente, tanti action con visione mastica chewingum incorporata o revenge movie non esisterebbero o sicuramente non sarebbero come sono.