Jack Lemmon 100: Una star ordinaria, un attore straordinario

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Jack Lemmon, al pubblico, è sempre piaciuto. Difficile tentare di spiegarne il motivo, ma il risultato è sempre stato una confortante sensazione di pieno appagamento. Lemmon non ha mai avuto il carisma di alcuni suoi colleghi attivi negli stessi anni, né è mai stato in possesso del fascino di molti altri, a cui era sufficiente un primo piano per ammaliare schiere intere di spettatori. Non è stato nemmeno così istrionico da generare un’ammirazione deferente, eppure nella sua lunga carriera è sempre stato ammirato, spesso ricercato, sicuramente molto amato. Forse perché ha incarnato l’uomo medio e le sue paure, l’americano ben conscio dei suoi limiti che si smarrisce nell’ansia, che riconosce il suo posto nella società e che sa perfettamente quale sia il compromesso da attuare per cercare di sopravvivere. Uno di tutti noi, se solo avessimo avuto il suo talento. Discreto, mai invadente, per questo è piuttosto complesso spiegare ciò che il pubblico apprezzava di lui: erano sufficienti un’alzata di spalle, una reazione ripetuta dopo uno sguardo dubbioso, un tentennamento, per dominare la scena e riempirla della sua presenza.

Perché Lemmon, che Harry Cohn, agli inizi della carriera per la Columbia, avrebbe voluto ribattezzare Lennon, salvo ricredersi quando gli si fece notare la consonanza con il leader bolscevico nel pieno della Guerra fredda, amava recitare. Tutto ciò che seguiva al rumore secco del ciak e all’urlo «azione!» lo considerava un momento magico, una dimensione parallela nella quale cercava di sondare i propri limiti personali, qualunque ruolo gli fosse affidato. Amava talmente recitare da farlo sotto falso nome durante gli anni di Harvard e da accettare un apprendistato in televisione, prima che la fortuna bussasse alla sua porta con le fattezze di George Cukor, che gli affidò il ruolo del vicino di casa innamorato, prudente e giudizioso in La ragazza del secolo. Il primo di quei ruoli calzanti, tagliati su misura per lui come un vestito di sartoria che Billy Wilder, nei sette film in cui lo diresse, esaltò, contribuendo a forgiare un prototipo di divo differente, quasi ossimorico nella sua medietà. Lontano dagli stereotipi imperanti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, distante dalla mascolinità talvolta tossica (e in alcuni casi anche ipocrita) proposta da Hollywood, una personalità capace di giocare con i confini sfumati dell’eterosessualità e con una galleria di personaggi banalmente ordinari, ai quali sapeva infondere quella scintilla che li sublimava in protagonisti comunque indimenticabili. Magari non da poster con sguardo torvo e impossibile affissi nelle camerette, ma da compagno di viaggio a cui pensare ogni tanto nel disbrigo delle pratiche quotidiane.

La sua comicità era tutta basata sul conflitto tra l’ordinarietà e le situazioni eccezionali in cui si trovava involontariamente intrappolato. Per sfuggire ai gangster di Al Capone cerca di confondere la propria identità, anche di genere, fino a smarrirla quasi completamente nel finale (A qualcuno piace caldo, a cui nove anni dopo farà eco il sottotesto di La strana coppia, insieme al suo partner di sempre, Walter Matthau). Incapace di ottenere un vero vantaggio, per fare carriera nel mondo impiegatizio in mancanza di qualunque tratto distintivo, arriva a barattare il suo comodo appartamento (L’appartamento, appunto) e per ricavare un semplice rimborso assicurativo accetta di mettere in moto un rovinoso e controproducente effetto a catena (Non per soldi…ma per denaro). Costantemente fuori posto e privo di coordinate, anche in un genere per lui improprio come il western, da portiere d’albergo desideroso di unirsi ai più scafati mandriani in Cowboy di Delmer Daves, rivela la sua totale estraneità spaventandosi a morte perché Glenn Ford si libera degli scarafaggi sparando.

Quando poi ha rischiato di ripetersi, di diventare la parodia di se stesso, il suo uomo medio si è scontrato con la singolarità tragica, confermando che ciò che era successo ne I giorni del vino e delle rose non era un semplice caso particolarmente fortunato, ma la concreta possibilità di espandere la sua gamma di interpretazione e di allungarsi così la carriera. Il superamento delle remore morali in Salvate la tigre, addirittura il sacrificio in Sindrome cinese, il coraggio di un padre in Missing, il controverso dolore di un nonno ricomparso all’improvviso in America oggi, nel quale è in scena solo per una decina di minuti, in condivisione con un ricchissimo cast di una ventina di attori, eppure riesce a regalare un indimenticabile monologo che è un po’ il lascito della sua eclettica vita professionale.

Si dev’essere un attore straordinario per rendere unici i personaggi ordinari, e Lemmon lo è stato. Due Oscar (come protagonista in Salvate la tigre e non protagonista ne La nave matta di Mister Roberts: impresa riuscita solo sei volte), una comparsata nei Simpsons a renderlo monumento pop e la netta impressione di aver condiviso parte del proprio cammino cinefilo con una grandissima star dal basso profilo. Che era anche un grande comico.