Oggi di un brutto film va di moda dire che è “irricevibile”. Come se il compito di uno spettatore fosse quello di aspettarsi qualcosa dallo schermo, di prepararsi ad accoglierlo e poi decidere se prenderlo o rifiutarlo (e non semplicemente di pigliare e andarsene, se il film non piace). Al termine della proiezione stampa di Le filles du soleil dell’attrice e regista francese Eva Husson, qualche giornalista spagnolo ha addirittura urlato «es una verguenza, es immoral», anche qui assumendo su di sé – spettatore, critico, accreditato – il compito di giudice e moralista e rifiutando il film, supponiamo, più per la sua concezione e la sua collocazione che non per le sue qualità, che per inciso sono talmente poche da non meritare né il rifiuto né tantomeno la sdegno.
Al massimo ci si può considerare un poco sminuiti per essere costretti – da spettatori, critici, accreditati – a vedere un film come questo nel concorso a Cannes, se non fosse che, visto il periodo e viste le battaglie del femminismo da red carpet, visto il movimento #metoo e la manifestazione sulla montée de marches di diverse registe, attrici e sceneggiatrici poco prima della proiezione, un film come questo in concorso a Cannes ormai ci sta benissimo. O meglio, ci sta benissimo perché ce lo fanno stare; perché è francese, perché sposa una causa buona e giusta, perché usa una causa buona e giusta (quella dell’esercito curdo in difesa del proprio territorio dagli attacchi dell’ISIS) per sponsorizzarne un’altra altrettanto buona e giusta (quella del ruolo delle donne nel mondo del cinema), ma perlomeno, ci sia permesso, un poco meno drammatica e mortale.
Il senso di Le filles du soleil si risolve in cinque minuti, quelli che basterebbero per pigliare e andare: una giornalista francese, inviata di guerra al confine tra la Turchia e la Siria, in un periodo compreso fra il 2014 e il 2015 (e a quanto a pare a partire da una storia vera), atterra in Kurdistan, nel territorio presidiato dal YPG, e incontra subito la divisione di guerrigliere donne di cui vuole documentare e raccontare le azioni. A una soldatessa che le chiede il perché, lei risponde pressappoco perché loro, le soldatesse del YPG, guerriere libere, coraggiose, degne della massima ammirazione, sono una specie di bandiera del marxismo e del femminismo nel mondo. Andiamo a memoria, per cui potremmo sbagliarci sulle esatte parole, ma assicuriamo che le parole «marxismo» e «femminsmo» ci sono; per di più dette dall’attrice Emmanuelle Bercot, che da qualche anno a questa parte è di casa a Cannes ed è diventata l’emblema del cinema francese engagé e militante, oltreché, ovviamente, miliardario.
Il resto del film, tra voci narranti contrite, celebrazione del giornalismo di guerra che dimenticano quarant’anni di storia del cinema (la Husson l’avrà visto L’inganno di Schlöndorff?), movimenti di macchina degni del carrello di Kapò, grandinate di riprese in controluce, flashback sognanti sul passato familiare di una delle guerrigliere o cupissimi sul suo destino di prigioniera degli estremisti (già, perché nel film non si cita nemmeno l’ISIS – solo gli “estremisti”), è puro cinema pompato che si fatica davvero a capire a chi possa interessare. Più semplicemente, forse, è solo brutto cinema.