Concorso

Leto di Kirill Serebrennikov

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Se si pensa al rock o al punk/new wave degli anni Settenta e Ottanta i nomi che vengono in mente sono quasi sempre gli stessi: Talking Heads, Blondie, Sex Pistols, Lou Reed, David Bowie… difficilmente si penserà ai rocker di qualche paese dell’Est Europa o a una lingua che non sia l’inglese. Della scena rock-punk sovietica, in particolare, si conosce poco o nulla nonostante l’enorme successo e popolarità che molti di quei gruppi musicali ebbero in patria e nei paesi del Patto di Varsavia a partire dagli anni Ottanta, e nonostante la sorprendente originalità di molta di quella musica.

Victor Tsoi, cantautore, attore e fondatore dei Kino di Leningrado, una delle esperienze di new wave in assoluto più interessanti di quegli anni, è in patria una specie di semidio nonostante in America o in Europa sia conosciuto solo da una piccola nicchia di appassionati. Tra il 1982, anno dell’uscita di 45 il disco d’esordio dei Kino e il 1990 pubblicò una manciata di album che divennero il punto di riferimento di una generazione cresciuta in URSS negli anni del declino del berznevismo e poi della Perestrojka. Ma se il successo arrivò negli ultimi anni della sua vita (nel 1990 i Kino riempirono lo Stadio Lužniki di Mosca al picco della loro popolarità), fino a un fatale incidente stradale che gli tolse la vita a soli 28 anni nel 1990, i suoi primi anni furono invece quelli di una notorietà locale all’interno di una scena – quella rock leningradese degli anni 80 – fatta di concerti nelle case, dischi americani comprati al mercato nero, e soprattutto dello storico Rock Club di Leningrado, il locale che divenne il punto di riferimento di quella comunità musicale. Fu in questo club – uno dei pochi dove venne acconsentita una fioritura della cultura musicale rock da parte dello stato sovietico – che fecero i primi passi non soltanto i Kino, ma anche altre storiche band sovietiche degli anni Ottanta come Televizor, Alisa, Aquarium, Piknik, Automatic Satisfiers, DDT, NEP, e soprattutto i Zoopark.

È infatti su quest’ultima band e sulla comunità di musicisti e amici che la circonda che si concentra Leto (che prende il titolo da una canzone dei Zoopark), il film portato in concorso da Kirill Serebrennikov (che non è potuto venire a presentarlo sulla Croisette perché agli arresti domiciliari in Russia per problemi giudiziari che destano parecchi sospetti di persecuzione politica): più che un vero e proprio biopic su Viktor Tsoi è una sorta di cantico di quella generazione e di quella scena musicale. Girato in bianco e nero, e con un evidente disinteresse per l’affresco storico (nonostante ci pare che molti di quei personaggi abbiano corrispettivi reali) il lavoro di Serebrennikov sembra voler ricostruire non tanto gli eventi che hanno contraddistinto la carriera di quei gruppi, quanto un mood del rock sovietico degli anni Ottanta: il modo cioè, attraverso cui quella musica e quell’immaginario siano diventati la biografia sentimentale di una generazione, e abbia custodito, nel momento del disfacimento dell’URSS, la possibilità inespressa di un cambiamento mai avvenuto (di cui il film in un certo senso redime oggi la sua persistente virtualità).

Gli Zoopark di Mike Naumenko (di sette anni più vecchio di Viktor Tsoi) furono i primi a provare a “tradurre” i tropi del rock americano nell’idioma e nell’immaginario russo (con tutto l’effetto cacofonico dell’appropriazione del centro da parte della provincia) e a “formare” quelli che avrebbero poi dato vita alle band della scena di Leningrado. Tuttavia, se i testi di Naumenko parlavano in modo un po’ ridicolo di una vita da rockstar lontanissima da quella quotidianità, Viktor Tsoi viene subito mostrato nel film come colui che decide di prendere una via più autoriale (e che infatti diventerà lo sguardo di quella generazione sulla crisi dell’URSS della Perestrojka). In quell’appropriazione un po’ pacchiana e un po’ ingenua di David Bowie, Lou Reed e i Talking Heads, nella mitizzazione di una musica che in quegli anni negli Stati Uniti e in Europa era già declinante, sta tutta l’operazione del film: che non vuole raccontare il genio unico e irripetibile di Viktor Tsoi o di Mike Naumenko quanto il loro processo di soggettivazione generazionale.

Centrali a questo riguardo sono alcuni inserti musicali (letteralmente da musical) di canzoni stranote come Passanger di Iggy Pop o Perfect Day di Lou Reed, che mostrano alcuni dei protagonisti del film compiere dei gesti eclatanti in giro città (come scatenare una rivolta in un treno o mettersi a cantare in mezzo a un pullman) con animazioni grafiche che modificano l’immagine e mostrano l’irrealtà della situazione. Al termine di questi veri e proprio videoclip, un personaggio che svolge un ruolo da narratore interno ammette, guardando in macchina o alzando un cartello, che “questo non è mai avvenuto”. Ciò che non è mai avvenuto, in realtà, è soprattutto la promessa di trasformazione che quella generazione, quelle musiche, quei testi e quelle canzoni (in altre parole, qual mood o quel meccanismo di soggettivazione) custodivano, e non sono mai riuscite ad esprimere.

I Kino e Viktor Tsoi sono stati il punto di riferimento (o per meglio dire la proiezione immaginaria) di una generazione che avrebbe voluto trasformare la propria vita, ma che di lì a poco, invece, sarebbe stata testimone del disfacimento delle promesse di cambiamento tramite la delusione del post-Perestrojka. Il film rende efficacemente questa dimensione della potenzialità inespressa o della promessa non mantenuta anche attraverso la storia del ménage à trois tra Viktor, Mike e la ragazza di quest’ultimo, Natasha, divisa tra i due e destinata a rimanere nella sospensione dell’attesa fino al termine del film.

Leto è senz’altro un film nostalgico sulle speranze di una scena musicale e di una generazione, ma che ci mostra anche un continuo evitamento dei conflitti: tra i due uomini che sono innamorati della stessa donna, ma anche tra quella generazione e la storia che di lì a poco la sommergerà.